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Percorsi terapeutici

La principale forza motrice della terapia è la sofferenza del paziente con il desiderio, che ne scaturisce, di guarire.
Sigmund Freud
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Lo strumento di cui si avvale lo psicoterapeuta analiticamente orientato è il colloquio clinico, grazie al quale può offrire un ascolto attento, una valorizzazione della parola unica e irripetibile di chi domanda. Attraverso questo processo si vanno ad isolare progressivamente il momento e il motivo dell’emergenza e della costituzione della crisi.

Ciò può avere l’effetto di gettare una prima luce su quanto appare inizialmente oscuro e ingovernabile. Mettere bene in forma la questione personale che affligge, ritagliare, delimitare i bordi del problema forniscono già un sollievo e appaiono come il primo passo per un successivo lavoro di ricerca delle cause più profonde ed antiche. Inoltre dà la possibilità di calibrare la profondità e le modalità dell’analisi in base alle caratteristiche individuali di ciascuno.

Vengono quindi messi a punto percorsi terapeutici diversificati e personalizzati che individuano la strategia di trattamento più adeguata in base alle differenti problematiche e ai tratti distintivi di chi domanda un supporto.

In genere sono due le principali scansioni in cui si divide il percorso terapeutico: una prima fase di analisi della domanda e il trattamento psicoterapeutico vero e proprio.

Possiamo avere poi due varianti della psicoterapia: la psicoterapia di gruppo e la psicoterapia di coppia.

In virtù della pluriennale esperienza come psicologa addetta alla selezione del personale in ambito aziendale, la Dott.ssa Sibilla Ulivi dedica uno spazio al sostegno di coloro che si affacciano per la prima volta al mondo del lavoro o che stanno cercando una nuova occupazione dopo un percorso professionale già avviato.

A differenza della psicoterapia, i cui tempi non sono prevedibili perché dipendono sostanzialmente da una scelta soggettiva su quanto spingere a fondo l’analisi, per questo servizio è possibile individuare una durata media in termini di incontri, che si aggira sulla decina.

Si tratta infatti di un percorso che prevede in tutto sei fasi ben distinte, di cui le ultime cinque costituiscono la parte più concreta, che comporta un “fare” sia durante la consultazione con lo specialista che in autonomia. Il successo del percorso è dato dall’integrazione degli incontri con un’attività individuale mirata a raggiungere gli obiettivi stabiliti nel corso dei colloqui.

1. analisi della condizione di vita della persona

A questo livello è importante riuscire a mettere in luce punti di forza e di debolezza sia sul piano personale che professionale. Si raccolgono così dati che riguardano la storia individuale. A tal proposito è importante parlare di sé con franchezza e senza inibizioni, proprio per aiutare lo specialista a capire chi siamo veramente e a impostare in maniera mirata la strategia di approccio alla ricerca lavoro.

2. analisi del cv e della lettera di presentazione

Vengono presi in esame il cv professionale e la lettera di presentazione redatti in precedenza, in modo da ottimizzarne i contenuti e la struttura ai fini della presentazione di sé al potenziale datore di lavoro.

3. analisi delle strategie di ricerca lavoro

Si redige un elenco di tutti i possibili canali da percorrere per la ricerca lavoro, da quelli più classici e standard ai più informali e meno convenzionali. Si tratta di promuovere un atteggiamento riflessivo volto ad ampliare il più possibile lo spettro delle vie da percorrere per raggiungere l’obiettivo.

4. simulazione di colloqui di selezione e analisi della simulazione

La simulazione dei colloqui di selezione è il punto cruciale di tutto il percorso ed è di notevole utilità per vari motivi. Da una parte permette al candidato di sperimentare in una condizione controllata e protetta i vissuti suscitati da un colloquio in cui viene sottoposto a giudizio. Inoltre ha modo di riflettere su gli atteggiamenti e i contenuti espressi grazie alla successiva analisi dell’andamento del colloquio insieme al terapeuta. In questo modo può diventare consapevole di eventuali “errori”o “ingenuità” che inconsapevolmente commette nel momento in cui si trova sotto pressione. Ciò può permettere successivamente, nella situazione reale, di evitare di compromettere il risultato finale a causa di queste piccole sbavature. Una corretta conduzione del colloquio dal punto di vista formale permette di fornire agli occhi del selezionatore un’immagine il più possibile accurata di se stessi, senza incorrere nel rischio di indebite sottovalutazioni.

5. Follow up

Quest’ultima fase può avere una durata variabile e dipende in gran parte dal tipo di risultati ottenuti nella ricerca lavoro. Può comprendere nuove simulazioni ed un’ulteriore analisi dei colloqui effettivamente svolti e non andati a buon fine in modo da affinare ulteriormente la tecnica.

A volte, dopo un percorso di questo tipo, può subentrare il desiderio di spingere più a fondo la conoscenza di se stessi, con la domanda di una psicoterapia.

A volte le persone attribuiscono la causa del loro malessere ad una relazione di coppia “difficile”. Prevale la convinzione che potrebbe andare tutto bene se il loro partner fosse “diverso”. Si può trattare di un amore che sta finendo, che non c’è mai stato, che è ancora forte ma non si sa dimostrare all’altro. Ci può essere una difficoltà di un figlio, che mette alla prova la tenuta del legame, preso nel vortice delle colpe e delle rivendicazioni.

In ogni caso il problema è l’altro. L’altro che delude, che aggredisce, che annoia, che non fa mai la cosa giusta.

La psicoterapia di coppia può dunque essere utile per analizzare e mettere in discussione questa presunta colpevolezza dell’altro. Riproducendo la dinamica di coppia in presenza del terapeuta durante il colloquio, si può scoprire il ruolo che giochiamo anche noi all’interno della relazione. Cosa che è molto difficile da vedere lucidamente senza l’aiuto di un osservatore esterno, proprio perché nella relazione a due siamo troppo coinvolti ed inneschiamo alcuni atteggiamenti in maniera del tutto automatica ed inconscia.

Vedere la parte che si ha nella creazione e/o nel mantenimento della conflittualità di coppia ci permette di compiere il passo successivo, quello di approfondire individualmente le ragioni che stanno alla base dei nostri meccanismi inconsci di rifiuto. Possiamo così capire se è la nostra relazione il problema, se è davvero così in stallo come crediamo, oppure se non siamo noi a proiettare sul compagno nostre antiche difficoltà irrisolte e frustrazioni.

In una parola grazie a questo percorso si può capire se vale la pena proseguire ed investire nella relazione o piuttosto intraprendere una separazione. A questa decisione non si può arrivare senza aver percorso il passaggio stretto dell’autocritica, della messa in discussione di sé. Il rischio di una decisione basata sull’idea della colpa dell’altro è quello di ripetere nelle relazioni successive le stesse dinamiche. In un circolo vizioso di rotture e separazioni.

Ripercorrere la storia della coppia, il momento in cui ci si è conosciuti, il corteggiamento, cosa ci aveva così colpito del partner tanto da pensare che fosse la persona giusta ci dà tantissime informazioni non tanto su chi è il compagno ma su chi siamo noi, i nostri gusti, desideri, inclinazioni. Scegliamo l’altro in misura più o meno importante sempre a partire da noi stessi, l’altro è sempre un po’ visto per quello che non è.

Tollerare un rapporto di coppia e starci comporta un misurarsi con questo dato di fatto, la diversità del partner in carne ed ossa rispetto al nostro modello ideale. Infondo noi stessi siamo lontani dal corrispondere a ciò che desidereremmo essere, per cui accettarsi nella propria imperfezione appare come il primo passo per accogliere l’altro per quello che è, limiti compresi.

La terapia di gruppo si afferma definitivamente come tecnica terapeutica grazie agli originali contributi di R. W. Bion durante la seconda guerra mondiale, alle prese con il trattamento di gruppo dei soldati con problemi che ostacolavano la loro partecipazione alla guerra.

Il grande pregio della terapia di gruppo consiste nella possibilità che offre ad individui con problematiche simili di incontrarsi e confrontarsi. Ciò lo si vede bene in chi soffre di attacchi di panico, piuttosto che di depressione, dipendenze e disturbi del comportamento alimentare.

Il gruppo funziona così da specchio, permette un riconoscimento del proprio malessere, generalmente incompreso ai componenti dell’ambiente familiare. Inoltre promuove un’apertura all’altro, dà la possibilità di intrecciare nuovi legami, di uscire dalla solitudine, di recuperare fiducia e ottimismo grazie all’aiuto reciproco. Il senso di appartenenza che regala lo stare in gruppo in alcuni casi può davvero rafforzare il senso di identità e costituire un freno alla sensazione di precarietà così diffusa in chi soffre di un disagio.

L’efficacia del gruppo “mono sintomatico” (costituito cioè da soggetti che soffrono dello stesso sintomo) come strumento terapeutico la si vede nel breve periodo grazie al confronto con soggetti simili, che soffrono dello stesso tipo di disagio. Il senso di isolamento legato alla propria condizione si affievolisce e abbastanza rapidamente si inizia a stare meglio grazie al conforto dato dallo scambio con i compagni.

Gli effetti di lungo periodo sono invece legati alla scoperta della propria particolarità e diversità rispetto agli altri. Nonostante ciascuno esprima la sofferenza nello stesso modo degli altri, non è identico a loro. Ognuno ha una storia particolare che lo ha portato a stare male, inoltre ha modi di pensare propri, tratti specifici che lo rendono unico e irripetibile. Riappropriarsi della propria soggettività ha un innegabile effetto terapeutico perché allontana dalla identificazione totale con il proprio malessere. Se siamo altro rispetto a ciò di cui soffriamo possiamo anche metterlo in discussione, analizzarlo, distaccarcene un po’.

Spesso quest’ultima fase coincide con la richiesta di un approfondimento delle proprie questioni più intime e personali mediante un percorso di psicoterapia individuale. Si entra nel gruppo tutti uguali e se ne esce tutti diversi.

Lo psicoterapeuta, durante la terapia, offre se stesso come un facilitatore della circolazione libera della parola fra i membri del gruppo. La sua presenza è silenziosa ma c’è, sostiene senza offuscare i veri protagonisti del lavoro terapeutico.

Sono attivi i seguenti gruppi:

  • gruppi per il trattamento dei disturbi comportamento alimentare

  • gruppi per il trattamento delle dipendenze

  • gruppi per il trattamento dei disturbi da attacco di panico

  • gruppi per il trattamento della depressione

O Dio, dacci la serenità per accettare quello che non si può cambiare, il coraggio di cambiare quello che va cambiato, e la saggezza per distinguere l'uno dall'altro.
Reinhold Niebuhr

Per quanto riguarda la psicoterapia pure non esiste uno standard adatto per tutti, la cura si calibra via via sulle risposte individuali, il tipo di risorse disponibili e che si possono mobilitare per innescare un cambiamento. Non ci sono vie prevedibili, lineari. Analogamente a quello che accade durante un viaggio, c’è spazio per la sorpresa, l’imprevisto, la tempesta, la schiarita inattesa, la scoperta di mondi nuovi.

Detto ciò possiamo isolare due vettori che orientano il trattamento del disagio. Uno più “simbolico”, legato al senso, che consiste nell’elaborazione delle questioni soggettive attraverso la parola e un altro più “supportivo”, legato maggiormente alla parte affettiva, al contenimento della vulnerabilità emotiva. Ogni psicoterapia contiene una miscela di questi due elementi, senso e affetto, elaborazione e contenimento, solitudine e presenza, astrazione e concretezza.

Di solito, quando il malessere è molto intenso, può prevalere l’asse “supportivo”, il terapeuta presta se stesso come uno strumento in grado di assorbire il dolore e di restituirlo depotenziato, trasformato, in una forma più vivibile. Generalmente, smorzatasi la fase più acuta della crisi, è possibile lavorare più sul piano dei significati, della ricerca del senso. Ancora una volta è importante la funzione del terapeuta che, ascoltando le associazioni del paziente, passa le sue parole come attraverso un setaccio, favorendo la messa in luce dei punti del suo discorso più ricchi di implicazioni. A volte, quando pensiamo in solitudine, fatichiamo ad avere una visione pienamente lucida dei problemi che ci angustiano, perché siamo troppo coinvolti e quindi di fatto non ci ascoltiamo veramente, tendiamo a non vedere significati o soluzioni alternative ma ci focalizziamo sempre sugli stessi punti.

Attraverso la parola indirizzata a qualcun altro, qualcuno di diverso rispetto ad un amico o un conoscente, qualcuno che non ha aspettative, che non giudica, che non vuole niente, si può sperimentare la libertà di dire tutto ciò che passa per la mente, senza inibizioni o tabù. Al di là degli interventi e delle interpretazioni che fornisce il terapeuta è già terapeutico in sé parlargli, perché in questo modo è possibile ascoltare con orecchie diverse ciò che noi stessi stiamo dicendo. C’è una quota di solitudine nella psicoterapia. Anche se l’altro c’è in un certo senso può capitare anche di percepire che non ci sia, che il lavoro sia più dalla parte di chi domanda che di chi ascolta. Mettendo in discussione ciò che abbiamo sempre dato per scontato riusciamo a individuare non solo le cause esterne alla base dei nostri disagi, ma anche il contributo che involontariamente vi abbiamo apportato noi.

Questa è una grandissima molla per il cambiamento, perché innesca una nuova prospettiva, si esplorano vie sconosciute , scatta una curiosità verso se stessi e il modo in cui percepiamo il mondo che restituisce un po’ di quella vitalità che avevamo perso. Ci rimettiamo in moto, ci risvegliamo, cerchiamo delle strategie per stare meglio. Chiaramente tutto ciò comporta fatica, non è facile uscire da se stessi, dalla tendenza a lamentarsi e a non vedere vie di uscita. Quando si è nella morsa del malessere non è mai semplice, magari la soluzione è più alla portata di mano di quanto non si possa vedere . Può comportare dei costi a volte alti, ma può valerne davvero la pena.

La psicoterapia aiuta a vedere come non vi siano scelte che non comportano anche dei costi, delle perdite . Spesso siamo paralizzati dalla paura e così non facciamo nulla. Ma nel non fare nulla moriamo, veniamo colti dal panico o dalla depressione. Poi un altro aspetto che si scopre attraverso un cammino di questo tipo è la differenza fondamentale fra ciò che dipende da noi, e quindi abbiamo la possibilità e la responsabilità di cambiare, e ciò che invece non dipende da noi, sul quale invece non abbiamo alcun controllo. Quest’ultima situazione è altrettanto frequente della prima ed è ancora più difficile da affrontare perché ci confronta con la nostra impotenza, con il sentimento che non vi siano vie di uscita.

Ciò che l’essere umano meno sopporta è sentirsi impotente. Eppure è qualcosa che fa parte della sua natura. Se da una parte cerchiamo sempre il senso delle cose, davanti a molti aspetti della vita (come non essere ricambiati nel nostro amore, la violenza, la morte o la malattia) siamo costretti ad arrestare . Ed una psicoterapia anche su questo difficile snodo può fare molto. Può aiutarci a trasformare una fragilità in una ricchezza, un evento invalidante in un’occasione di crescita personale, un lutto in una nuova consapevolezza, una sconfitta nella visione della vera meta verso cui aspiriamo.

Trovare scappatoie quando non si vuole guardare dentro se stessi è la cosa più facile al mondo. Una colpa esterna esiste sempre, è necessario avere molto coraggio per accettare che la colpa – o meglio la responsabilità – appartiene a noi soltanto.
Susanna Tamaro

L’analisi della domanda consiste in una serie variabile di colloqui “preliminari” alla cura stessa e propedeutici alla formulazione di un’ipotesi diagnostica. Si raccolgono informazioni riguardanti la vita della persona, le tappe salienti della sua storia, dettagli sui sintomi e sulle condizioni di vita attuali. In questa fase appare cruciale delimitare il problema che fa soffrire, dargli un nome, ricostruirne il periodo di emergenza e le condizioni esistenziali associate ad esso.

Questo lavoro ha una durata variabile da individuo a individuo, può durare più o meno a lungo e va considerato non solo come un momento durante il quale lo specialista rileva delle informazioni bensì come un primo approccio terapeutico, che in quanto tale può arrecare sollievo.

I primi colloqui con lo specialista tuttavia rappresentano nello stesso tempo una fase molto delicata sia per chi chiede aiuto sia per chi lo offre.

Da una parte colui che si rivolge allo psicologo ha dovuto superare molte resistenze e titubanze prima di convincersi di non farcela con i propri mezzi. Generalmente prevale la convinzione di dovercela fare da soli, si pensa che essere forti equivalga a non avere bisogno di nessuno. Di solito è solo durante il percorso terapeutico che si scopre come in realtà ci voglia molta più forza nel chiedere aiuto che nel negare tutto e attribuire le colpe dei propri malesseri agli altri o agli eventi esterni. Agli inizi tuttavia questo concetto non è ancora chiaro e si può giustamente far fatica a concedere la propria fiducia a chi di fatto è ancora un estraneo.

Il terapeuta accorto conosce questo fenomeno, sa che ci vuole del tempo perché una persona si possa aprire e lasciarsi andare a dire tutto liberamente, senza timori né pudori. Un colloquio psicoterapeutico non è in alcun modo un esame: non ci sono giudizi, risultati da raggiungere, tempi da rispettare. È un’esperienza.