Responsabilità e colpa
Spesso responsabilità e colpa vengono confuse, le si scambia per la stessa cosa. Qual è invece la loro differenza? Che cosa le rende al fondo molto diverse se non addirittura opposte l'una all'altra?
Spesso responsabilità e colpa vengono confuse, le si scambia per la stessa cosa. Qual è invece la loro differenza? Che cosa le rende al fondo molto diverse se non addirittura opposte l'una all'altra?
Nell'immaginario collettivo si pensa che la fortuna nella vita coincida con il benessere materiale. Bellezza, danaro, salute sembrano essere le basi necessarie per accedere alla felicità, intesa come condizione di piacere e di armonia senza strappi. In quest'ottica la malattia, la povertà, la deformità fisica, la vecchiaia sono dei mali assoluti, delle vere e proprie catastrofi che minano irrimediabilmente qualsiasi aspirazione verso la pienezza.
Sembra un paradosso, eppure accade. Capita di aver paura d'amare, di temere proprio la fonte stessa della felicità. E questo non soltanto quando non siamo sicuri dei sentimenti dell'altro. Al contrario è proprio nel momento in cui l'amore è pienamente, intensamente ricambiato che irrompe l'angoscia.
Tutte le domande di aiuto nelle loro varie forme sono accomunate da un'interrogazione di fondo, più o meno sofferta, rispetto al senso del proprio stare al mondo. Cosa mi rende davvero felice al di là dell'avere, delle aspettative sociali, di un certo rassicurante conformismo?
Per tutti noi è molto difficile a volte sospendere il giudizio e vivere serenamente il presente nonostante l'incertezza della situazione che ci troviamo ad affrontare. C'è in noi un bisogno di controllo intimamente legato alla necessità di dare un senso a ciò che ci accade, che tuttavia rischia di condurci verso pensieri ed azioni che ci allontanano anziché avvicinarci ad una risoluzione del conflitto che stiamo attraversando.
È esperienza comune incontrare nel corso della vita almeno una situazione che costringe al confronto con la propria insufficienza. È cioè ineluttabile per l'essere umano il verificare con dolore lo scarto tra la propria immagine ideale e ciò che è nel reale.
A molti può capitare nel corso della vita di bloccarsi davanti ad un compito che comporta la presa di parola in presenza dello sguardo di altri esseri umani. Un esame, un discorso pubblico, una riunione mettono alla prova la capacità di sostenere lucidamente il nostro pensiero nel qui ed ora dell'incontro con una pluralità di punti di vista, senza possibilità di cancellature, rettifiche o ripensamenti.
Un lavoro psicoterapeutico, se portato a fondo, scolla chi lo intraprende dagli schemi con cui è solito leggere e reagire agli eventi. Spinge cioè a mettersi in discussione, a vedere parti di sè che generalmente restano in ombra e che a ben vedere sono proprio la radice della sofferenza e degli scacchi che vengono patiti nella vita. Spesso però, quando si inizia un percorso, lo si fa sulla scia della sofferenza. E quest'ultima in un certo senso acceca rispetto alle proprie responsabilità.
Spesso siamo portati a credere che il valore del tempo risieda nella quantità di cui ne possiamo disporre per fare delle cose. Ci lamentiamo continuamente di non averne abbastanza, nella misura in cui ci percepiamo incalzati dalla necessità del far fronte a mille impegni da cui davvero non possiamo esimerci.
La malattia, la lesione, il deteriorarsi di un organo, una parte del corpo per gli esseri umani non sono soltanto fenomeni che investono la sfera somatica. Essi hanno un impatto enorme soprattutto sulla psiche di chi ne viene colpito.
Apparire è senz'altro uno dei principali diktat moderni. L'uomo contemporaneo è cioè pesantemente incalzato, fin dai banchi di scuola, ad esibire agli occhi del suo contesto sociale di appartenenza un'immagine di forza e di successo.
Quando si pensa a problematiche di ordine psicologico viene quasi immediato riferirsi a situazioni di disadattamento rispetto alla realtà. Nell'immaginario collettivo cioè la persona sofferente di disturbi psichici è quella che incontra, in maniera più o meno marcata, delle difficoltà nel fronteggiare i compiti e le sfide della vita, preferendo il rifugio nel mondo della fantasia. Questa visione può per certi versi essere condivisibile, benché tenda a ridurre la complessità della questione.
L'obesità è una problematica dei nostri tempi. Figlia del consumismo di cui è schiavo l'uomo contemporaneo, indica il trionfo dell'introiezione dell' oggetto come modalità di trattamento dello stato di mancanza che attraversa costitutivamente ogni essere umano.
Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, scopre un fatto rivoluzionario per la comprensione della sessualità femminile. Anche la bambina, al pari del bambino, attraversa una fase di intenso attaccamento alla madre, che può durare anche molto a lungo.
La parola racchiude in sè una potenzialità terapeutica fortissima. Non a caso una delle prime pazienti di Sigmund Freud usava l'espressione "talking cure", cura della parola, per riferirsi al percorso psicoanalitico che aveva intrapreso per gettare luce su alcuni conflitti psichici che la tormentavano.
Il discorso contemporaneo, nonostante parli molto di depressione, non la ama per nulla. La considera un deficit, una malattia, qualcosa da estirpare e togliere di mezzo il più velocemente possibile. La medicalizza. Ora, se esistono certamente forme la cui gravità non fa venire nessun dubbio sull' opportunità di un intervento terapeutico diretto e mirato ad un loro alleggerimento, la maggior parte dei casi trattati attraverso la mera via farmacologica in realtà ha migliori possibilità di riuscita con un approccio che integra l'uso della parola.
Il vissuto connesso al panico differisce profondamente da quello di un comune attacco d'angoscia, nella misura in cui la violenza e la pervasività con la quale si manifesta sono tali da rendere impossibile il proseguimento di qualsiasi attività.
L' isteria, disturbo diffuso ai tempi di Freud e fino a qualche tempo fa presente come categoria a se stante all'interno dei manuali diagnostico statistici dei disturbi mentali, oggi non è affatto sparita, anche se assume delle sembianze un po' diverse rispetto all'epoca del padre della psicoanalisi.
Generalmente si tende ad associare la personalità narcisistica al sesso maschile, più che altro sulla base dei racconti delle molte donne che lamentano la freddezza e l'incostanza in amore dei loro partner. L'apparente maggiore frequenza di tratti narcisistici negli uomini si spiega proprio a partire dalla maggiore disponibilità del sesso femminile nel raccontare e denunciare le sofferenze patite all'interno delle relazioni di coppia.
Scoprire di non venir ricambiati da chi ci piace, essere lasciati, traditi, accorgersi che chi amiamo non è davvero chi credevamo sono tutte situazioni che ci fanno attraversare una delusione d’amore. Il dolore che ne deriva ha fortemente a che fare con la sensazione dello strappo, della lacerazione, della perdita.
Nella mia pratica clinica mi accade frequentemente di ascoltare persone, anche di notevole intelligenza e spessore, invischiate in relazioni distruttive per il proprio equilibrio ed autostima. Queste sono portate ad accettare e portare il peso di rapporti all'insegna della sofferenza. Non solo, spesso accade che proprio i legami più sofferti siano quelli considerati più intensi dal punto di vista emotivo, come se da un certo punto in poi non fossero solo subiti ma attivamente ricercati per una sorta di oscuro piacere ricavato dal tormento.
Nessun essere umano può dirsi non attraversato da mancanze, insufficienze e conflitti. Nessuno vive una condizione di perenne e permanente completezza, autosufficienza, perfezione. Credere che qualcuno la sperimenti è solo un miraggio della mente. Ferita, lesione, perdita, fragilità sono invece tutti termini che ben descrivono la natura dell'uomo, costitutivamente povera, vulnerabile, alle prese con un mondo che non offre solidi, visibili ormeggi.
Nella società contemporanea essere introversi, riservati, di fondo timidi può sembrare a prima vista un handicap. Il modello culturale dominante tende infatti a incentivare chi si esibisce, chi è abile cioè, sul lavoro, nelle situazioni sociali o nei confronti dell'altro sesso, a catalizzare l'attenzione degli altri su di se', attraverso un certo uso del linguaggio e del corpo.
La femminilità comporta strutturalmente una sensibilità speciale al desiderio dell'Altro. Questo significa che una donna, nel momento in cui sperimenta una delusione affettiva o amorosa, può facilmente andare incontro a sentimenti di svalorizzazione, di caduta depressiva ai limiti della depersonalizzazione.