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Depressione e creatività

Come è possibile che un soggetto svuotato come il depresso sia capace di dare vita ad un’opera artistica? Quale rapporto c’è tra solitudine, dolore, mortificazione e spinta alla messa in forma di un testo, un dipinto, una canzone? Cosa significa questa forma di voler dire, che raggiunge l’Altro e allaccia la vita alla morte?

Per la psicoanalisi il fenomeno si spiega proprio a partire dalla vicinanza con il vuoto a cui porta lo stato depressivo. Potremmo pensare infatti al depresso come a colui che vive in maniera più intensa ciò di cui fanno esperienza tutti gli esseri umani, ossia un sentimento di fondo di mancanza che accompagna il loro essere nel mondo. Il venire amati e voluti dalla propria famiglia sicuramente attutisce questo vissuto, tuttavia non lo elimina del tutto proprio perchè non può sopperire alla radicale solitudine che accompagna ogni vita umana, condannata a non fare mai del tutto “uno” con un altro essere, a non trovare mai il completamento in qualcun altro. La ferita, lo strappo, la frustrazione dello stare al mondo accomunano tutti. Per nessuno esiste un eden di continua gratificazione, si tratta di fare i conti con il limite del nostro essere separati. Questo però non toglie che vi sia possibilità di desiderare e godere. Ma non lo si può fare ininterrottamente, in mezzo c’è un intervallo, c’è sempre da fare i conti con un meno, con una mancanza, con un vuoto inaggirabile.

Nella depressione nevrotica e per alcuni aspetti anche nella melanconia di matrice psicotica, il dolore di esistere, la condizione lesa della vita vengono percepite con particolare intensità. Spesso nella storia di soggetti che soffrono di queste forme di malessere troviamo relazioni genitoriali caratterizzate da ambivalenza, abbandono, perdita che ne acuiscono la sensibilità e amplificano il citato senso di solitudine e infondatezza esistenziale. Creare appare allora come un modo per dare voce al dolore, esteriorizzarlo attribuendogli un senso possibile, una forma pensabile. A volte la creazione appare come l’unica parentesi al dolore, diventa una sorta di supplenza a una carenza molto profonda. Ma anche nei casi meno gravi, quando in gioco vi è una tendenza melanconica di ordine nevrotico, il sollievo apportato dall’atto creativo è indubbio.

Dunque senza mancanza, senza esperienza del limite e della sofferenza non avremmo neppure arte, creazione, espressione di pensiero e di vita. Freud parlava di “sublimazione”, ovvero di possibilità per la pulsione di soddisfarsi attraverso delle vie più elevate rispetto a quella meramente sessuale. C’è quindi una vera e propria soddisfazione pulsionale nell’arte, un rapporto carnale fra artista ed opera che dura per tutto l’arco del processo creativo. Per poi riscivolare nuovamente nella separazione, nel lasciar andare, in un perpetuo movimento di andata e ritorno che interdice all’umano alcuna eterna pienezza.

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