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Contrastare la depressione: il potere della parola

Certo, la madre in origine offre un primissimo riparo al traumatismo del vivere. Poi però si tratta di fare a meno di lei, del suo conforto, del suo amore incondizionato. Pena un inchiodamento alla sua figura che impedisce ogni autonomia e possibilità di divenire se stessi.

Ecco, un nome della depressione potrebbe essere allora la nostalgia di quell'unione primitiva, di quel giardino fiorito, di quel paradiso perduto. Il rifiuto di accettarne la perdita e dunque di guardare in faccia e venire a patti con l'incompletezza, la solitudine del proprio essere ne costituirebbero il cuore misterioso. E si attiverebbero ogni volta che la vita ci mette di fronte degli inciampi, delle perdite, dei traumi, delle delusioni, dei rallentamenti.

Nella depressione diventiamo vili, paurosi, ci chiudiamo in noi stessi, siamo stanchi, svogliati, privi di energie. Ci lasciamo andare all'inerzia, all'immobilismo, al dolore di esistere. Ci ritroviamo, senza accorgercene, congelati all'istante dell'accadimento luttuoso, fissati al passato, cristallizzati nel piangere ciò che non c'è più.

Così facendo assolutizziamo il nostro patire, non vediamo che fa parte della vita, ne rifiutiamo l'esistenza, il peso e ci sembra che nulla abbia senso, che noi stessi non siamo nulla, così nudi e miseri. Lo splendore assoluto a cui aspireremmo ci sfugge, la nostra immagine ne viene intaccata, impoverita e non lo accettiamo, non ci va bene. La nostra protesta si esprime attraverso la mortificazione, la stasi, l'indifferenza.

Deprimersi significa al fondo sottrarsi al lavoro umile e faticoso di rimettere insieme i cocci dopo la caduta di un vaso liscio e prezioso, attività che non porterà mai alla restituzione della sua immagine originaria, senza sbavature e senza crepe, ma che potrà dare luogo all'inedito, ad altra cosa, ad altro vaso, creativamente, secondo un collage originale e dagli esiti imprevedibili. Radunare i pezzi sparpagliati si traduce in vita, in azione, in particolarità soggettiva, unica nella sua imperfezione. Mentre contrariamente, indugiare attoniti intorno ai frantumi schiaccia e paralizza in un rammarico senza fine, nell'impossibilità di cancellare, rendere non avvenuto l'inevitabile.

Combattere la depressione non si gioca dunque semplicemente al livello di prendere dei farmaci o sottoporsi a dei trattamenti. In questa maniera non si fa altro che medicalizzare il proprio stato, passivizzandosi ancora di più. Delegando all'Altro il compito di sanarci, di guarirci, andiamo a rinforzare la nostra posizione di fondo di impotenza e chiusura. E' come se gli dicessimo con aria di sfida: << guarda che disastro! Voglio proprio vedere se ci riesci tu a riparare il danno!>>, non volendo vedere che il danno in se' è davvero irreparabile. Il punto non sta nel sistemare tutto a posto come prima, ma, a partire dalla lesione subita, dall'evento luttuoso, rimettersi faticosamente in cammino con i mezzi che si hanno, con ciò che resta dopo la tempesta.

Questo passaggio comporta un trasferimento della responsabilità dei propri patimenti dall' Altro, dalla cattiva sorte, dal non senso della vita a se stessi. Rintracciarsi artefici del proprio male e' la primissima mossa che crea le condizioni minime per uno spostamento dalla morsa depressiva. Ciò può accadere solo attraverso un dire, un dire bene, un mettere in parola ciò che non va. Non semplicemente come sfogo fine a stesso. Ma come ricerca, autentica e non facile, dei perché più profondi e veri, spesso scomodi e pertanto difficili da dissotterrare. Al rifiuto di dire e di sapere si opporrà una nuova spinta, quella a conoscere. La mancanza, il vuoto scavato dalla perdita potrà così essere utilizzato come meccanismo propulsivo per incamminarsi verso aspre salite, in un movimento perpetuo che riallaccia al dinamismo della vita.

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