Malattia mentale e sostegno alle famiglie
Nel nostro paese purtroppo esistono scarse forme di sostegno alle famiglie colpite dal dramma della malattia mentale. La chiusura delle strutture manicomiali se ha ridato dignità alla vita dei pazienti psichiatrici ha lasciato al tempo stesso un vuoto non sufficientemente colmato dalle istituzioni che si occupano della presa in cura dei malati psichici.
Le acuzie psichiatriche oggi sono trattate in reparto, per un tempo limitato dopo il quale l’unica assistenza fornita è la forma dei così detti “day hospital”, brevi permanenze in ospedale studiate per mantenere una continuità terapeutica, un monitoraggio farmacologico e un aggancio con i curanti.
Esistono poi strutture a carattere semi residenziale, per lo più private convenzionate, che accolgono una vasta gamma di casistiche e di fasce d’età. L’iter che porta al ricovero comporta dei tempi d’attesa a volte notevoli. Inoltre la permanenza a tempo indeterminato è prevista solo per certe categorie e non sempre essa è davvero auspicabile. I ricoveri prolungati infatti, per come sono strutturati, determinano un’assuefazione alla cura che inibisce anziché stimolare un recupero delle capacità residue. Il paziente, una volta fuori, si ritrova spesso addirittura più fragile e vulnerabile, perché nuovamente confrontato con le difficoltà del vivere quotidiano.
In questo scenario le famiglie sono dunque il punto d’appoggio imprescindibile per la cura e la tutela del malato mentale. Ma a quale prezzo?
Nel caso di soggetti giovani, il rientro in famiglia è nocivo in primis per loro stessi. Si ritrovano infatti nuovamente confrontati con un ambiente che ha ostacolato anziché favorito il loro equilibrio. In moltissimi casi in famiglia è presente un padre o una madre a sua volta colpito da un disagio psichico. Si vengono a innescare così dei fenomeni micidiali di contagio, che scompensano tutti i membri del gruppo familiare. La moglie o il marito del soggetto fragile si ritrova anche a fronteggiare il problema di un figlio, finendo per sfibrarsi psicologicamente. Il crollo emotivo del principale “care giver” a sua volta si ripercuote sul figlio, in un crescendo di follia e di disperazione tutt’altro che terapeutici.
Nel caso di soggetti sposati invece il rientro in famiglia è assolutamente terapeutico per loro, quando il partner è disposto a contenerli e aiutarli e non è affetto a sua volta da disagi di importante gravità. Tutto il carico sarà però sulle sue spalle, e se ci sono figli su quelle dei figli stessi.
Per quanto concerne gli anziani psichiatrici di lungo corso, la malattia e la morte della moglie o del marito possono riacutizzare una psicosi parzialmente compensata dal sacrificio del coniuge. Il tutto ricadrà sui figli, che, anche quando non affetti da problemi mentali, si ritrovano a fronteggiare nello stesso momento la morte e la malattia del genitore superstite. Ancora una volta senza poter contare a pieno e prontamente su servizi pubblici.
In queste situazioni il denaro aiuta notevolmente, perché garantisce un’assistenza privata. Ma chi ne è privo, chi vive situazioni economiche non soltanto precarie, situazioni normali, comuni, ma non così solide che fa? Chi deve lavorare, assentarsi come può gestire nel lungo un vecchio malato che magari gli si scaglia contro proprio per via della sua malattia mentale? Un anziano che non vuole prendere le medicine, in rivolta contro tutto e tutti?
La stessa psicoterapia di sostegno, che molto può fare per infondere forza ai parenti, è quasi inarrivabile all’interno dei servizi pubblici, perché ostacolata da tempi lunghissimi di attesa. Di nuovo le soluzioni vanno cercate nel privato, un privato che costa, che non tutti possono permettersi.
É chiaro che rimpiangere i vecchi manicomi non è la soluzione. Vanno però ripensate le modalità di assistenza alle famiglie, lasciate troppo sole rispetto alle innumerevoli problematiche che ruotano intorno al disagio mentale. Esso, diversamente dalle altre malattie, espone al rischio di contagio in chi ne è a contatto in maniera prolungata.
I familiari, al contrario dei curanti, anche se sufficientemente edotti rispetto alle peculiarità del disagio del congiunto, faticano a mantenere una lucidità ed un atteggiamento corretto, perché fuorviati dalle aspettative che inevitabilmente circolano all’interno dei legami familiari.
I sensi di colpa, i rancori, i rimproveri inquiniamo la relazione che da potenzialmente di aiuto si trasforma in un inferno di accuse e attacchi reciproci.
È la solitudine delle famiglie il vero nemico da combattere. L’elemento terzo dell’istituzione, oggi deficitaria e sempre più sostituita da forme assistenziali private, è quanto mai necessario per il recupero di una distanza minima e salutare fra i familiari, schiacciati dal peso delle reciproche difficoltà.