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Il vino della solitudine - Irene Nemirovsky

Prima guerra mondiale. Helene trascorre la sua infanzia in una cittadina di provincia dell’impero russo. Boris, il padre, sempre assente dalla scena familiare e cieco di fronte ai tradimenti della moglie, è un uomo d’affari, che si arricchisce a dismisura approfittando delle opportunità commerciali offerte dalla guerra.

Bella, la madre, è invece intenta a soddisfare la propria brama d’amore e di avventura. In lei la donna cancella completamente la madre. Trascura la figlia per dedicarsi totalmente alla cura della sua bellezza e all’amante, un cugino più giovane di quindici anni, con il quale vive un’intensa e folle passione sotto lo stesso tetto che riunisce la famiglia.

Helene vive dunque uno stato di profonda solitudine. A darle conforto c’è l’affetto della schiva e sensibile governante, che però morirà tragicamente a seguito dell’allontanamento dalla casa, motivato dall’accusa di essere fautrice di una malsana educazione della ragazzina. In realtà Helene vede e capisce tutto ciò che avviene tra gli adulti senza che la balia le debba spiegare nulla. E’ una bambina precoce, dotata di un acuto spirito di osservazione. Legge molto, di tutto, ed è proprio la lettura che, oltre a farle sopportare le ore vuote intorno a sè, le permette di sviluppare pienamente uno spirito critico e indipendente.

Oltre alla trascuratezza ad Helene tocca subire il sarcasmo materno. E’ infatti oggetto di aspre critiche da parte di Bella: << certe volte questa bambina sembra un’idiota, come se cadesse dalle nuvole!...Sta dritta…Tieni chiusa la bocca…Ma guarda un po’ che faccia da schiaffi ti viene con quella bocca aperta e il labbro che pende…Questa bambina mi diventa scema, lo giuro!>>.

Helene ha la netta percezione di essere un intralcio per la madre, un peso. L’aspettativa d’amore materno continuamente frustrata le fa crescere dentro un odio sordo, sempre più gelido e implacabile, che lentamente prende il sopravvento su tutti gli altri sentimenti. Ed è proprio quest’odio che le permette di non soccombere al deserto affettivo. Mettere la colpa sull’altro le dà la possibilità di scollarsi dall’identificazione con lo scarto e di sopravvivere alla perdita dell’amata governante. Al prezzo di una durezza e di un cinismo in contrasto con la tenerezza e il candore dell’animo infantile. << Si è appassiti da un lato e ancora acerbi dall’altro, come un frutto esposto troppo presto al freddo e al vento..>>.

Se l’odio è il sentimento predominante su cui si sostiene la ragazzina per reagire alla carenza d’amore, questo finisce per dar luogo ad un desiderio di vendetta. Helene vuole fare soffrire la madre, tanto quanto ha sofferto lei. In questo si vede il limite del ricorso all’odio come strumento di separazione dall’altro. L’odio infatti non libera veramente ma mantiene vincolati. Nella spinta a fare del male all’oggetto odiato non vi è alcun affrancamento bensì un rafforzamento dei lacci che hanno reso schiavi.

Così Helene, la guerra alle spalle, diventata una giovane donna piena di fascino, mette in atto il suo progetto di rivalsa. Si vendica sull’ormai sfiorita madre facendo innamorare di sé il suo amante, che per altro non desidera per niente e verso il quale prova lo stesso gelido rancore che serba per la donna. Il giovane cugino è predisposto verso nuovi amori, proprio perché non è più visceralmente attratto da Bella. Il gioco è dunque semplice: Helene, conscia del suo “potere di donna” riesce a far impazzire d’amore l’uomo e a provocare un disperato dolore nella madre.

<<Si guardarono per un lungo momento e sbocciò fra loro quel tacito consenso che lega un uomo a una donna quando, senza che né una parola né un bacio siano stati scambiati, tutto è già detto, compiuto, deciso una volta per sempre>>.

Ed è a questo punto, la vedetta consumata, che la protagonista si interroga sul senso del suo agire.

Si accorge che la sua azione malvagia, l’aver provocato il desiderio nell’uomo solo per il gusto di far soffrire lui e la madre, non la rende diversa dai suoi carnefici. Si accorge di essere simile a loro, vede lucidamente la ripetizione in cui è incappata. E questo fa nascere in lei una volontà nuova, quella di interrompere il cerchio della coazione a ripetere ciò che ha subito. Vede spietatamente la sua implicazione in ciò che l’aveva vista sulle prime una vittima.

<<Ho passato la vita a combattere contro un sangue detestabile ma questo sangue è anche in me. Scorre in me. Se non imparo a vincere me stessa, questo sangue violento e maledetto avrà la meglio. Voglio essere più forte di me stessa, voglio vincere me stessa. Da oggi non la odio più, l’ho perdonata…mi fa persino un po’ pena…>>.

Ecco l’autentica liberazione! Ecco la possibilità vera della separazione dall’altro: riconoscersi simili a lui, cogliere la propria impurezza e scegliere di superare se stessi, di non essere del tutto la copia dell’altro. All’odio subentra il perdono, al legame mortifero il poter lasciare andare…

Questo passaggio di Helene dal ruolo della vittima incastrata nella relazione distruttiva con l’altro a quello di soggetto che si assume la responsabilità dei suoi atti e si svincola così dalla ripetizione rispecchia in pieno il movimento proprio ad un ‘analisi. Passo non facile ma decisivo verso la separazione. Libertà che porta con sé una nuova solitudine, il vino della solitudine.

<< E io sono libera, libera, mi sono liberata della mia casa, della mia infanzia, di mia madre, di tutto quello che odiavo, di tutto quello che mi pesava sul cuore. Ho voltato le spalle a tutto questo, sono libera. Lavorerò. Sono giovane e in buona salute. La vita non mi fa paura…Sono sola, ma la mia solitudine è aspra e inebriante>>.

Aspra e inebriante come un vino.

Disagio contemporaneo