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Raccomandazioni e aspettative: cosa aspettarsi da un trattamento psicoterapeutico

Se la sofferenza è il motore imprescindibile alla base di ogni richiesta di aiuto, essa in psicoterapia non può venir trattata d’urgenza come una ferita aperta da chiudere nel più breve tempo possibile. Il tampone dell’ascolto sicuramente offre nell’immediato un sollievo all’emorragia, tuttavia non esistono punti di sutura “psichici”  da posizionare rapidamente che garantiscano una tenuta nel tempo.

Cura dell’anima e cura medica

La dimensione del  dolore mentale differisce da quella fisica non tanto per l’intensità percepita, quanto per la sua invisibilità. Ci troviamo di fronte ad una delocalizzazione del malessere rispetto all’organo, un po’ perché la coincidenza della mente (o anima?) con il cervello è ancora da dimostrare, un po’ perché se anche sovrapponessimo coscienza e materia le nostre conoscenze attuali resterebbero lontanissime dal permetterci di trattare efficacemente la questione con gli strumenti della medicina.

Va da sé che la terapia del male “oscuro” segua altre vie rispetto alla medicina, tenti cioè di sfruttare le potenzialità della relazione con il simile. Viene dunque messo da parte l’approccio scientifico classico, che prevede un osservatore il più possibile neutrale ed un oggetto passivo, in favore di una contaminazione fra le due parti.

Affinché la difficile arte psicoterapeutica possa anche parzialmente funzionare bisogna rinunciare a questi due miti: l’esistenza di colui che analizza in maniera neutrale e distaccata e quella di colui che viene analizzato come un oggetto inerte. Sul versante del terapeuta da ciò deriva  la necessità di prepararsi ad “accogliere” il suo paziente, a farsi cioè modificare dall’incontro, a rinunciare alla pretesa di superiorità, di distacco e onniscienza. La guida non sarà più solo  lo sguardo, ma soprattutto l’ascolto, mentre la parola fungerà da medium.

Le aspettative

E sul lato del paziente? Se egli non è un oggetto passivo, che porta se stesso dal medico per far guarire una parte del suo corpo, come si posiziona allora nell’ambito di una cura? Cosa deve aspettarsi?

Porsi questi interrogativi in anticipo rispetto alla richiesta di aiuto effettiva può essere utile, per evitare delusioni o fraintendimenti. Normalmente un buon terapeuta nei primi colloqui porta l’attenzione su questi temi, in maniera non didattica ed esplicita. Egli compie a tal fine delle manovre atte a condurre nella giusta direzione, quella cioè del coinvolgimento attivo nel lavoro di ricerca su di sé.

Più chi si appresta all’analisi sarà “preparato” rispetto al tipo di percorso che lo attende, più il tempo preliminare si accorcerà, in favore di un atteggiamento mentale favorevole alla riuscita del trattamento. Più le aspettative di “salvazione” saranno irrealistiche più al contrario sarà complesso entrare nel vivo del processo. Non si tratterà più di lasciar perdere la fretta e di concedersi il giusto tempo per comprendere tollerando di non stare bene subito. Tanto più le resistenze a mettersi in gioco sono elevate, tanto più il tempo viene solo perso, non messo proficuamente a frutto.

Il macchinista

Dunque il vero macchinista è sempre colui che si sottopone al trattamento, mai l’analista. Quest’ultimo è il facilitatore del viaggio, lo rende possibile, tuttavia non guida al posto dell’altro nè sceglie la destinazione per lui. Il terapeuta non dirige la vita, non dice cosa fare e come farlo. Aiuta semplicemente a riprendere un contatto con la parte più profonda di se stessi, smarrita nel corso degli anni per i motivi più svariati.

In terapia per larga parte non si parla alla figura in carne ed ossa del curante, egli funge piuttosto  da schermo su cui vengono proiettati vecchi film. Rivissuti possono essere identificati come tali e persino riletti in chiave nuova.

Se il rapporto terapeutico invece si  appiattisce su uno scambio verbale fatto di consigli e ammonimenti  esso finisce col perdere tutte le potenzialità trasformative. Divenire se stessi, scoprirsi, evolversi, crescere viene impedito da una relazione in cui c’è qualcuno che si suppone detenere la verità e qualcun altro che si ritiene invece essere del tutto deficitario, da aggiustare, indirizzare o placare.

Lo spazio terapeutico verrà invece usato a piacimento se sia il curante che l’analizzante lo permetteranno. Allora l’uso della seduta sarà più o meno creativo ma in ogni caso personale. Il ritmo di marcia sarà dettato dall’andatura di chi deve compiere il cammino.

Il progresso lo si calcolerà in base a quanta auto critica questi sarà in grado di tollerare e di portare avanti. Da intendere con il termine auto critica non un’auto demolizione, sempre sterile e fine a stessa, piuttosto una presa di coscienza lucida rispetto ai propri meccanismi auto sabotanti, generalmente invisibili perché cuciti addosso come una seconda pelle.

Allora la responsabilità degli insuccessi, dei fallimenti non verrà più attribuita  all’altro frustrante ma unicamente a se stessi. Potendosi finalmente concedere una seconda possibilità.

Disagio contemporaneo