Capire o giudicare?
Purtroppo ai nostri giorni sempre di più osserviamo forme di disagio legate alla sostituzione del tempo lungo della comprensione con quello breve del giudizio.
Il problema lo vive sia chi si appiglia ciecamente al giudizio come strumento guida di sopravvivenza, sia soprattutto colui che resta intrappolato in tale sistema etichettante.
La dinamica del giudizio
Si tratta di una dinamica relazionale profondamente malsana, molto diffusa negli ambienti lavorativi o sociali dove vige un atteggiamento ossessivo nei confronti del successo inteso non come la risultante del desiderio, della passione e della dedizione al lavoro, bensì come valore in sé stesso, dunque come pura celebrazione maniacale e narcisistica di sé.
La ricerca affannosa del “successo per il successo” si combina con la propensione al giudizio nella misura in cui la mente dell’ambizioso mira a togliere di mezzo la complessità, vista come un inciampo alla propria corsa verso la grandezza.
Lasciare spazio a ragionamenti complessi implica infatti un ridimensionamento narcisistico, ovvero un riuscire a lasciare da parte il proprio ego e le sue categorie mentali (spesso basate sull’apparenza) in nome del mistero della cosa oggetto di analisi.
Il giudicante sa già di cosa si tratta, sempre, perché appunto tenta di aggirare l’incontro con la propria insufficienza nell’approccio al nuovo, al problema, a tutto ciò che costituisce altro da sé.
E, anziché assumere la propria limitatezza per permettere all’oggetto di manifestarsi (principio alla base di ogni approccio davvero analitico) finisce per imporsi su di esso, forzandolo in definizioni che non tengono conto delle sue caratteristiche sostanziali ma che si basano sull’apparenza.
Le conseguenze psichiche
A questa scorciatoia segue dunque una sequela di violenze. A farne le spese sono non solo le competenze tecniche, impoverite dal fenomeno della vanagloria e ridotte ad aneddoti o elenchi della spesa, ma anche e soprattutto i rapporti umani, che si deteriorano inutilmente.
Le persone, sentendosi incomprese o non accolte nella loro autenticità, iniziano a presentare dei comportamenti malati. Alcuni optano per un camuffamento difensivo, altri per un’identificazione alla modalità imperante. C’è poi chi soccombe o chi si ribella apertamente.
In ogni opzione comportamentale qualcosa va perduto.
Nei primi due casi l’inclusione viene pagata al caro prezzo della perdita di soggettività, dal momento in cui la gabbia narcisistica impedisce un’evoluzione nel senso della maturazione personale e dell’acquisizione di un buon equilibrio personale. Nervosismo, rabbia, frustrazione cronica sono le conseguenze psichiche inevitabili.
Nelle seconde situazioni il guadagno di soggettività implica però un’uscita dal sistema. E ciò non è tanto un danno per chi se ne va, per chi non sta alle regole malate del gioco. Questi troverà, presto o tardi e con più o meno fatica, una situazione più consona.
Il danno principale lo vive l’ambiente che via via perde al suo interno ogni tratto dissonante, ogni personalità che con la sua diversità potrebbe apportare ricchezza.
L’uniformità e l’appiattimento su certi codici comportamentali portano inesorabilmente verso la decadenza e la perdita proprio di quel prestigio e di quella competitività tanto inseguiti.
Il ruolo della psicoterapia
In psicoterapia ascoltiamo frequentemente il dolore di soggetti alle prese con climi ultra competitivi e distruttivi.
La realtà milanese purtroppo è piena di società blasonate, dai nomi altisonanti, che vissute dall’interno si rivelano delle vere e proprie macellerie.
Il mondo del lavoro, ma a certi livelli anche quello dell’arte o dello sport è dominato da questo fantasma narcisistico, soluzione dei nostri tempi alla fragilità esistenziale.
Oggi più che mai si tenta di trattare l’angoscia attraverso l’immagine, sfruttando il suo potere calmante in maniera folle e indiscriminata.
Chi si discosta da un certi standard è destinato a patire, come si diceva ad alienarsi a pratiche conformistiche o a soccombere.
Il ruolo dello psicoterapeuta in questo scenario è dunque molto delicato, soprattutto nei confronti dei giovani che si rivolgono a noi in preda a sentimenti di inadeguatezza.
In genere qualsiasi luogo dominato dall’ideale narcisistico fa da cassa di risonanza e da amplificatore a sensi di inadeguatezza che hanno origine nella storia personale della persona che chiede aiuto.
L’obiettivo non è quindi né adattare, né promuovere una ribellione o tantomeno rinforzare un atteggiamento di sconfitta. Sarà la vita a far capire al giovane cosa vorrà veramente.
In terapia si viene aiutati a distinguere i propri fantasmi personali da quelle che sono le oggettive dinamiche disfunzionali di natura ambientale.
Questa distinzione è importante, perché mette ordine, e l’ordine è già una cura rispetto al tumulto delle emozioni. Vediamo giovani bravissimi, pieni di potenzialità, convinti di non valere niente.
Se gli ambienti ultra competitivi in cui si trovano sono oggettivamente mortificanti perché giudicanti, la caduta nell’abisso della disistima totale di sé ha delle cause più profonde e più antiche.
Poter trattare la ferita interiore insieme al terapeuta, figura sensibile e lontana anni luce dalla pratica cieca del giudizio, aiuta piano piano ad aggiustare l’immagine lesa e a ritrovare quella lucidità necessaria per andare avanti nella vita.
E ciò avviene grazie al semplice ascolto, grazie alla possibilità, garantita dal setting analitico, di dire le proprie verità nascoste e dolorose.
Il terapeuta guarisce non tramite la consolazione ma grazie alla sua capacità di comprensione, ovvero di sparire dalla scena per far parlare la “cosa” oggetto della sua analisi, per far venire finalmente alla luce il “soggetto”.