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Ricerca della magrezza e femminilità: qual è il confine con l'anoressia?

Non ci facciamo nemmeno più caso: il binomio bellezza-magrezza è dato per assodato. Se si vuole essere desiderabili agli occhi degli altri si deve essere anche magri.

Andiamo a vedere perché questo imperativo fa molta presa sulle donne e le condiziona così tanto. La femminilità comporta in sé una sensibilità particolare all’apprezzamento da parte dell’altro. Ogni donna, anche la più austera e meno frivola, desidera essere desiderabile. E questo non necessariamente per vanità o esibizionismo. La femminilità implica un’apertura all’altro, una recettività speciale ai suoi bisogni ed aspettative. Che la predispongono alla relazione ma anche ad una certa vulnerabilità. “Sono come tu mi vuoi” non va visto come indice della mancanza di una personalità propria ma un effetto della tendenza tutta femminile a trovare conferme del proprio essere attraverso il desiderio dell’altro.

Se dunque il contesto sociale tende a valorizzare una certa immagine di femminilità, la donna è portata ad adeguarvisi. Naturalmente ciò varia in base alle caratteristiche di ciascuna: esistono diverse sensibilità al discorso della magrezza. Inoltre ogni donna trova un suo stile per esprimere la propria bellezza.

Bisogna poi ricordare come siano in aumento casi in cui le donne ricercano il corpo magro come qualcosa che bisogna avere per raggiungere il successo all’interno di determinati ambienti. Come psicologo a Milano mi capita di osservare una nuova ossessione per il corpo magro sganciata dal sopracitato desiderio femminile di piacere. In queste situazioni non si tratta di trovare conferme alla propria femminilità davanti all’altro. Lo scambio sembra essere del tutto tagliato fuori. Il corpo magro è ridotto ad uno dei tanti elementi che non ci si può esimere da avere per un curriculum di successo.

Si può dire che l’anoressia come patologia clinicamente rilevabile sia causata da un’esasperazione di questo meccanismo? Assolutamente no. Dobbiamo tenere ben distinti i motivi che portano le donne ad essere sensibili alle mode o ai nuovi diktat sociali da quelli che le conducono a sviluppare problemi con il cibo.

Perché una donna si ammali di anoressia ci vuole ben altro rispetto alla volontà di aderire agli standard estetici correnti. Ben altro rispetto al femminile desiderio di essere desiderate e alla comunissima insoddisfazione per la forma o un aspetto del proprio corpo.

L’anoressia può trovare terreno fertile in un contesto che considera la magrezza un valore assoluto. Ma non ne è una diretta conseguenza. Certo, spesso l’esordio avviene in concomitanza di una dieta, sulla quale non si riesce più ad esercitare un controllo.

Ma non tutti coloro che iniziano una dieta sviluppano un disturbo alimentare.

Perdere il controllo sulla dieta non porta ad essere né più belle né più allegre. Non c’è dietro alcuna motivazione di natura edonistica. Da un certo punto in poi irrompe una spinta distruttiva, autolesionistica, masochistica che niente ha a che fare con la ricerca della bellezza. Il limite della cura e della conservazione di sé, il confine dettato dalla legge freudiana del “principio di piacere” (che spinge l’essere umano a cercare il piacere ed evitare il dispiacere) viene travalicato. Compare un desiderio di niente.

Le ragioni alla base del fenomeno anoressico - bulimico sono varie e complesse, e cambiano a seconda delle storie e della gravità clinica. In ogni caso un elemento comune sembra venire alla luce invariabilmente dal passato delle donne che sviluppano questo sintomo. Sono state amate da qualcuno che ha dimostrato l’amore attraverso le cure materiali, il riempire, il dare, il nutrire fino al soffocamento. Rifiutare il cibo fino alla consunzione appare dunque paradossalmente come una manovra di separazione. Un modo per neutralizzare l’equivalenza dare amare e per costringere l’altro ad angosciarsi per loro, a perdere cioè la sua compattezza, a mostrare la sua mancanza. Ad amarle finalmente per quello che sono, per la loro particolarità non omologabile.

Esistono poi quadri in cui l’ “appetito di morte” va oltre questa logica. L’invadenza dell’altro di riferimento ha assunto un carattere di eccesso, di vera e propria spietatezza. Non mangiare o vomitare sono allora strumenti indispensabili non tanto per smuovere l’altro e costringerlo a vederci ma per mantenere saldo un senso di identità, costantemente minacciato da una capricciosità violenta e difficile da padroneggiare.

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