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Depressione nevrotica o melanconia?

In entrambi i casi, oltre all’umore depresso e alla tristezza vitale, abbiamo in evidenza la sensazione di non valore nulla, una profonda perturbazione nella visione di se stessi, autoaccuse, rimproveri immotivati, senso schiacciante di colpa.

Tali fenomeni esteriori, osservabili invariabilmente in tutti i casi di depressione, rispondono tuttavia a logiche differenti.

La depressione nevrotica è per così dire quella meno grave, non tanto per l’intensità dei sintomi, quanto per la loro reversibilità. Infatti questo tipo di struttura psichica risponde più facilmente ad un dispositivo terapeutico basato sull’uso della parola e l’analisi dei nessi causali. C’è alla base una capacità di instaurare un clima di fiducia nella relazione d’aiuto, sulle prime non sempre evidente data la chiusura nei confronti dei legami a cui porta la malattia. Ma il vero punto che qualifica la sofferenza depressiva come nevrotica è la presenza dell’elemento del desiderio nel soggetto. Il depresso nevrotico conserva cioè una scintilla vitale, che si può trovare in empasse, che può sembrare morta, spenta ma che comunque da qualche parte è rintracciabile, come una fiammella coperta da strati di cenere. Generalmente si è in uno stato di rinuncia così pervasiva alla realizzazione di sé che può sembrare non esista nulla dell’ordine della vita. Ma ciò che si palesa dietro questo assetto difensivo è una “viltà morale”, un indietreggiamento, un cedere al proprio desiderio per non volersi confrontare con la fatica e la frustrazione che provare a realizzarlo comporta. A monte possiamo allora vedere nitidamente un rifiuto nei confronti dei propri limiti, a cui inevitabilmente mettono di fronte gli ostacoli che si incontrano nel momento in cui si intraprende una qualsiasi impresa, seppure modesta. Mantenersi nel lamento, nella stasi vitale e nell’auto autoaccusa per la propria incapacità ha allora una funzione non immediatamente visibile ma sottile: quella di preservare dall’incontro con il fallimento, con l’insuccesso. Che scatenerebbe vissuti intollerabili a causa di antiche ferite del passato, perdite dolorose che hanno recato danni all’immagine di sé e mai del tutto elaborate.

Il melanconico invece è tutt’altro tipo. Egli è davvero lo scarto, la merda, l’oggetto perduto. Lo realizza a volte anche nel sembiante stesso. Ora, anche il depresso nevrotico spesso dice di sentirsi una merda. Ma questo stato è reversibile, può conoscere dei momenti di pausa, è influenzabile dai rimandi e apprezzamenti che giungono dall’esterno e dagli altri. Il melanconico invece soffre di un sentimento continuo di nullità esistenziale, che non risponde al legame con l’Altro. Le sue autoaccuse, per altro spesso feroci e implacabili come quelle del nevrotico, nascondono una verità diversa. Lui non ha semplicemente subito una ferita narcisistica, non ha incontrato una frustrazione d’amore, una perdita in un quadro che comunque includeva una fase in cui era amabile. Di fatto non è mai stato visto dall’Altro, dalla madre per lo più. Non ha mai avuto accesso al sentimento di essere amato, riconosciuto e voluto. Ha incontrato uno sguardo “non guardante”, uno sguardo che l’ha trapassato senza vederlo, consegnandolo al vissuto di non essere nulla. La vita per essere inscritta nel senso necessita del riconoscimento da parte di un simile, altrimenti il rischio è lo scivolamento in una condizione di melanconia, di caduta, di sprofondamento nell’abisso della fatuità. A tutti è accaduto nella vita di osservare il mondo come una fiera delle vanità e i nostri automatismi come patetiche abitudini prive di senso. Tutti noi a volte sperimentiamo la sensazione di vivere in un film, in una bolla artificiale, ma per la maggior parte del tempo viviamo tranquilli la nostra routine senza porci continuamente domande. Il melanconico no. Per lui non si tratta di una sensazione intermittente ma continua, il mondo è una scena, un teatrino dell’assurdo e il vivere un dolore senza fine.

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