La depressione e l’uso del farmaco
Perché allora oggi assistiamo ad un vero e proprio abuso di psicofarmaci anche nei casi in cui vi sono ampi margini di tollerabilità del dolore? Le ragioni le dobbiamo ricercare in una tendenza che permea la nostra società a negare l’esperienza del dolore. Ciò che si pone come un inciampo al programma consumistico, al mito della performance e del successo, all’inseguimento dell’ebbrezza di un’eterna giovinezza va liquidato il più in fretta possibile. Così il lutto si può vivere solo in forma privata e va pure smaltito velocemente, per non rischiare di rimanere indietro rispetto ai diktat sociali. La sofferenza provocata da una perdita, da una malattia, da un fallimento va mascherata, occultata. E il farmaco in questo scenario si pone come un alleato per fare piazza pulita di tutti gli affetti negativi che ci possono assalire.
ll ricorso smodato al farmaco è in linea con l’aumento delle patologie di dipendenza, come le tossicodipendenze , l’alcolismo e i disturbi della condotta alimentare. Quello che non si sopporta è il vissuto della “castrazione” , l’incontro con i limiti che la vita ci impone. La sostanza ci permette di rifugiarci in una sorta di nirvana, di realtà virtuale, in cui l’esperienza della frustrazione e della caduta sono completamente inesistenti. Ma in questo modo ci indeboliamo e finiamo per aver sempre bisogno della stampella chimica.
Quali conseguenze negative ha infatti questo ricorso indiscriminato al farmaco come rimedio contro ogni esperienza che mina il nostro senso di padronanza? Il rischio principale è un impoverimento della capacità introspettiva, di quella attività psichica che il nostro cervello mette in moto ogni volta che gli capita di imbattersi in eventi o situazioni spiacevoli. Il dolore è cioè in realtà un segnale importante proveniente dalla nostra mente per spingerci a fermarci per vedere cosa c’è che non va. E’ uno strumento utile alla base di un processo di elaborazione che può avere degli esiti importanti per la nostra vita, perché ci porta a rivedere la nostra storia con sguardo critico, a dare un senso a quello che ci è successo e infine a preparare il terreno per nuovi investimenti e slanci vitali. E’ qualcosa in ultima analisi che ci consente di non essere passivi, totalmente travolti dagli eventi traumatici.
Il farmaco, se utilizzato al posto dell’elaborazione mentale, rischia invece di schiacciarci in una posizione di dipendenza. All’immediatezza del suo effetto non corrisponde un’altrettanta crescita interiore. E’ come se in un certo modo ci superasse, ci costringesse ad andare più veloci rispetto a quanto la nostra preparazione psichica ci consentirebbe. Per andare avanti abbiamo quindi sempre bisogno di lui perché senza, se smettessimo di farne uso, riemergerebbero tutta la nostra inadeguatezza, tutta la fragilità con cui non abbiamo fatto i conti.
La psicoanalisi in quest’ottica è uno strumento che non mira a chiudere la “castrazione” aperta dal dolore ma ci aiuta a riannodarlo all’interno della nostra storia, a reinserirlo in una cornice di senso. Certo, i tempi della parola sono più lunghi di quelli della chimica, non promettono la stessa “felicità”, ci impongono un nostro contributo, una nostra fatica nel lavoro di analisi ma producono modificazioni più stabili, che diventano un nostro patrimonio personale da cui è possibile attingere in qualsiasi momento della vita.