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Perché siamo sempre insoddisfatti o inibiti?

Sigmund Freud già ai suoi tempi scopriva una verità scabrosa: da ciò che non va, dai nostri sintomi traiamo in realtà un godimento paradossale. C'è cioè un tornaconto che ricaviamo dai nostri patimenti. Una sorta di autogol da cui tiriamo fuori dei vantaggi. Il più evidente e'quello di poterci crogiolare nel lamento, nell'autocommiserazione, nel "non c'è la farò mai".

Il vittimismo e' il male più insidioso da estirpare, resiste tenacemente a ogni tentativo terapeutico. In effetti non vi può essere cura di nessun malessere esistenziale se non avviene una qualche embrionale presa di consapevolezza rispetto a questo meccanismo. Non si tratta di liberasene velocemente; basta iniziare a vederlo e a riconoscerne i modi con cui più o meno sottilmente si insinua nei nostri modi di pensare e di inquadrare la realtà. Quante volte impercettibilmente, inconsciamente, attribuiamo la colpa di un nostro problema a qualcun altro? Alla cattiva sorte, al destino avverso? A qualcosa che dunque ci è estraneo?

Una volta capito che siamo noi i macchinisti e non i poveri spettatori innocenti delle disgrazie che ci capitano, si tratta di fare un passo ulteriore. A cosa mi serve veramente scaricarmi la coscienza? Con sorpresa potremmo finire con l'accorgerci che è maledettamente comodo. Finché non sono io ma è l'altro ci possiamo esimere dal tentare. Possiamo stare fermi, come bambini sotto l'ala rassicurante della madre.

Da una parte vediamo la strategia femminile: la donna e' più incline all'insoddisfazione rispetto all'inibizione. Ecco allora un fiorire di sintomi somatici: fa male questa o quella parte del corpo, si cerca la causa esterna, si fa il pellegrinaggio da un medico all'altro, tutti aime' mai competenti abbastanza per capire cosa veramente non va. Così nelle relazioni: tutti gli uomini sono sempre fatalmente insoddisfacenti. E parimenti nel lavoro: nessuna professione si mostra in grado di far venire a galla i propri talenti. E' sempre l'altro ad essere insufficiente, mai che il soggetto si interroghi sulla sua posizione autentica verso ciò che davvero vuole senza tirare in ballo una causa esterna. Magari si ribella, anzi spesso l'animo femminile e' portato alla rivendicazione e al rifiuto. Ma il tutto rimane sterile perché si esaurisce in un vuoto ribollire afinalistico.

Per l'uomo e' un altro discorso, anche se non è infrequente incontrare donne che ne condividano l'attitudine. Per il maschio più che essere il corpo a soffrire e ' la mente, l'attività di pensiero si blocca e prolifera a dismisura nello stesso tempo. A discapito dell'azione. Della decisione. Del passare dal piano speculativo a quello pratico. Così che la vita si trascina in una catena di divieti, inibizioni e impossibilità. Un comodo vivacchiare, placido ma abbastanza arido. Tra mille garanzie che incatenano vitalità e possibilità nuove. Qui più che la ribellione vediamo il suo rovescio, l'ubbidienza senza scarti. L'uomo è portato a fare tutto ciò che gli viene chiesto, così da stare tranquillo, stare in pace. Lo si vede bene anche nei rapporti con le donne.

L'analisi, se ben condotta, porta a vedere tutto questo. A confrontarcisi. Non è un percorso facile, non risparmia una certa fatica, soprattutto nelle fasi più avanzate. Ma senza un incontro autentico con la nostra implicazione nel perpetuare ciò di cui ci lamentiamo non andiamo da nessuna parte. Infondo già quando arriviamo a chiedere aiuto abbiamo fatto un passo avanti enorme:quanto meno riconosciamo che qualcosa non gira per il verso giusto. Il vero malato e' chi si trova talmente a bagno e a suo agio nei propri meccanismi mentali da non percepire neppure un briciolo di sofferenza. Magari i parenti, i partner e gli amici ne patiscono, ma il soggetto no. Dunque la via regia per venire fuori da un'empasse rimane sempre e comunque la sofferenza individuale, vera porta d'accesso a un possibile cambiamento.

 

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