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Psicoterapia e disturbi alimentari

È doveroso precisare, quando si parla di disturbi alimentari, come non esista una psicoterapia ad hoc studiata per essi. Ciò perché i fenomeni visibili, i sintomi, costituiscono la manifestazione esteriore di problematiche profonde. Il trattamento deve quindi tener conto d’altro, andare oltre il visibile per cogliere la sofferenza unica, non standard del singolo paziente.

È doveroso precisare, quando si parla di disturbi alimentari, come non esista una psicoterapia ad hoc studiata per essi. Ciò perché i fenomeni visibili, i sintomi, costituiscono la manifestazione esteriore di problematiche profonde. Il trattamento deve quindi tener conto d’altro, andare oltre il visibile per cogliere la sofferenza unica, non standard del singolo paziente.
Il disturbo alimentare tuttavia, pur sottendendo questioni diversissime da persona a persona, ha qualcosa di seriale nella sua costituzione. Generalmente chi si rivolge ad uno psicoterapeuta lo fa perché ha perso il controllo su un rapporto già alterato con il cibo. Tale perdita di controllo significa perdita di un qualche (pur precario) equilibrio psichico raggiunto proprio tramite un atteggiamento sintomatico nei confronti dell’alimentazione.

La soluzione felice

La restrizione alimentare in un primo tempo, in un tempo “felice”, viene trovata come soluzione ad un malessere innominabile. Qualcosa non va ad  un livello che poco ha a che vedere con una semplice dieta. Il malessere, legato alla percezione dolorosa ma non lucida di una propria insufficienza,  viene concretamente attribuito ad un non  essere “abbastanza” su un piano fisico.
Non abbastanza magra, non abbastanza asciutta, non abbastanza “solida”. Del tutto assente è la consapevolezza rispetto alla vera inadeguatezza in gioco. Essa è spostata su un piano esteriore, tangibile, dunque misurabile oggettivamente e trattabile praticamente . “Se sto male perché il mio corpo non va bene, allora dimagrirò”. Non mangiare assume il valore di auto  cura, nient’altro può funzionare allo stesso modo.

Il crollo

Il vero sintomo che porta alla richiesta di aiuto  si palesa allora  in tutta la sua portata drammatica quando sulla restrizione viene perso il controllo. Essa sfugge di mano nella misura in cui si traduce in anoressia vera e propria, in rifiuto del cibo pressoché totale, oppure in atteggiamenti bulimici, generalmente violenti e smisurati tanto più severo e smodato è stato l’atteggiamento mortificante.
 
Le persone si rivolgono ad uno specialista quando non riescono più a mantenere il loro piano di auto cura. Questo è un punto fondamentale da non ignorare mai nella presa in carico. Non bisogna dare per scontata la volontà di “guarire davvero”. Di solito  non vi è alcuna intenzione di andare a cercare la “cosa vera”, ovvero  il malessere autentico celato dietro il problema fisico.
La richiesta è invariabilmente  una: “come tornare a funzionare come prima?”. Come riprendere il controllo alimentare perduto a causa dell’anoressia o della bulimia?

La domanda

E qui le cose si complicano anche per il curante. Il dilemma si articola attorno all’apertura piuttosto che alla chiusura della faglia psichica che sottende tutta la costruzione superficiale sintomatica. Ovvero: quanto spingere affinché la persona “veda” davvero  la sua ferita di fondo?  Quanto piuttosto tutelare, preservare il bisogno di mantenere il corpo magro, al di là di tutta la causalità inconscia retrostante?
 
La prudenza è allora più che mai necessaria. I primi colloqui servono proprio per far emergere in maniera sempre più chiara la vera posta in gioco nel trattamento. Se il paziente chiede un aiuto che va oltre la mera soluzione, nel corso degli incontri ne  darà evidenza. L’importante è che il curante mantenga la sua posizione di ascolto e non venga messo fuori strada da ciò che sa.
Se questi non può certo trincerarsi in un silenzio senza restituzioni, esse non devono in alcun modo costituirsi come delle interpretazioni prima che sia chiara la struttura psichica del suo paziente .
 
Possono esserci vari modi di rispondere all’urgenza angosciata senza che essi assumano   un valore interpretativo o prescrittivo. Accoglienza e riconoscimento sono lo sfondo di qualsiasi terapia, al di là della diagnosi. Invitare a raccontarsi, fare domande, mostrare curiosità  hanno il duplice valore di permettere la costruzione di un’alleanza terapeutica e di conoscere via via chi abbiamo davanti, come parla, come ragiona, come ha vissuto, cosa lo ha segnato. Allora, indirettamente, non solo avremo un’idea delle questioni profonde in gioco, ma avremo saggiato parallelamente di che natura sono gli strumenti elaborativi che la paziente  ha a disposizione.
 
Importante è che il curante stesso non venga preso nel vortice dell’angoscia che ha già divorato la persona che si trova di fronte e spesso tutto il suo contesto familiare e amicale. L’angoscia spinge ad agire, a dire, a fare, disordinatamente.

Il trattamento

Il luogo della terapia deve invece costituirsi come uno spazio sicuro, tranquillo, in cui vige l’accoglienza e in cui si parla, semplicemente. Si può parlare anche del da farsi, si possono elaborare anche delle piccole strategie di sopravvivenza, degli espedienti. In una parola si può rispondere alla domanda di chi, angosciatissimo, ci chiede disperatamente consiglio.
 
Il punto non é rispondere o non rispondere, dare o non dare suggerimenti, ma tenere la posizione di colui che non sa ancora, che ascolta, che tiene in conto e riceve il sapere del paziente.
 
Nella clinica dell’anoressia bulimia, in cui prevale la concretezza sull’astrazione, forzare sulla posizione dell’analista come supposto sapere è fallimentare. Anche perché possiamo ricevere giovani donne intelligentissime, che usano la conoscenza di sè come scudo, che al fondo sono arroccate in un uso del sapere che punta a chiudere piuttosto che ad aprire. “Questo lo so già, so già tutto” è il  ricorrente leit motiv nel discorso di molte, che inevitabilmente scarta e invalida  i vani tentativi del terapeuta.
 
È necessario allora che questa apertura la introduca il curante, lasciando perdere le interpretazioni premature e concentrandosi sulla promozione della produzione del discorso da parte dell’altro.
 
Se la persona ha la stoffa soggettiva per andare ad aprire su certe verità, per guardare le ferite, per sentire il dolore, in una parola per incontrarlo, per accoglierlo e infine superarlo (almeno un po’), essa si paleserà da sé  e allora potremo intervenire con qualcosa in più.
 
Altrimenti prenderemo atto dell’impotenza sul piano elaborativo, della vittoria dell’evidenza e della difesa e ci adopereremo per temperare gli eccessi, per tutelare il bisogno di controllo sul corpo, unica via per molte per non scivolare nel baratro della follia.

Disturbi alimentari