Lavorare con i pazienti difficili
Franco de Masi, nel suo libro “lavorare con i pazienti difficili” dà voce ad un movimento interno alla psicoanalisi contemporanea, volto a metterne in discussione gli strumenti tradizionali in vista della comprensione e del trattamento di strutture mentali non classicamente nevrotiche.
La tecnica analitica infatti è stata concepita per trattare pazienti mediamente nevrotici. Applicarla dunque indiscriminatamente senza tener conto dei cambiamenti culturali ed antropologici rispetto all’epoca freudiana significa di fatto non riuscire a trattare efficacemente un’importante gamma di pazienti, forzati a rientrare in categorie e logiche di funzionamento da loro molto lontane.
Il paziente difficile
De Masi definisce come “paziente difficile” non tanto quello che presenta una gravità clinica ai colloqui preliminari. A gravità dei sintomi infatti non corrisponde necessariamente una correlativa difficoltà nel trattamento. Pazienti con sintomatologie di una certa rilevanza possono infatti beneficiare con successo di una psicoanalisi “classica” se la loro struttura mentale consente loro di elaborare i conflitti sfruttando le potenzialità della relazione transferale con il terapeuta.
I pazienti “difficili” a cui si riferisce De Masi sono invece coloro che nel corso della cura mostrano difficoltà nel cambiamento o addirittura vanno incontro a peggioramenti. Questo perché non dispongono di un sistema inconscio in grado di simbolizzare e rappresentare gli stati emotivi. Una spia di questa mancanza la vediamo nel loro approccio al sogno. Se sognano non fanno poi associazioni, per cui la sequenza onirica in seduta viene raccontata a livello della sua concretezza, senza possibilità di accesso ad un significato possibile.
Tale deficit nella capacità di mentalizzazione De Masi lo rintraccia non tanto nella mancanza di un adeguato scambio emotivo con la madre in età infantile. Essa infatti è spesso presente anche nei quadri nevrotici classici, ma tale assenza di ricettività in rapporto alla figura genitoriale nella clinica della nevrosi non è stata totale. Qualcosa può essere richiamato grazie al transfert; la relazione con un nuovo oggetto può aiutare a riattivare elementi dello sviluppo emotivo rimasti paralizzati.
Nei casi “difficili” si vede invece come stati mentali ed angosce proprie dei genitori siano venuti ad essere letteralmente incorporati a partire dall’infanzia. I confini psichici di questi pazienti sono stati violati (a volte perfino usati come ricettacolo della sessualità adulta del genitore), dando il via alla costruzione di strutture psicopatologiche “di sostegno” rispetto alla destabilizzazione caratterizzante la relazione di dipendenza.
Ne consegue che nella mente di questi soggetti venga a mancare la presenza psichica di un oggetto da cui si possa dipendere con fiducia. Va da sé che la relazione terapeutica sia minata in partenza da tale mancanza. Il miglioramento, invece che apportare benessere, mobilita paura e dolore. La vita in sé è una minaccia, perché la repressione delle parti vive di sé è sembrata una soluzione efficace al dolore mentale.
Caratteristiche del paziente difficile e spunti terapeutici
Il ritiro
Il ritiro è uno degli esiti più comuni del fallimento delle prime interazioni emotive. Il bambino si rifugia in un mondo separato, tramite autostimolazioni sensoriali e masturbatorie oppure creando un mondo immaginario percepito come reale. Il rifugio della mente (Steiner) se da una parte consola e protegge dall’assenza o dall’intrusività di una madre che proietta le sue angosce, dall’altra complica la crescita e lo sviluppo della vita emotiva e di relazione.
Con gli adulti in cura il piacere connesso al ritiro lavora decisamente contro il cambiamento; anche la consapevolezza rispetto alla sua esistenza non aiuta ad uscirne. Il passo verso un suo graduale abbandono è dato dalla possibilità di disporre di altri e diversi oggetti interni, possibilità offerta dalla disponibilità trasferale dell’analista.
La simbolizzazione
Il deficit di simbolizzare e dare significato ai propri stati emotivi appare come un altro aspetto critico. Lo sviluppo di un inconscio che fa ricorso al linguaggio simbolico in grado di fare collegamenti emotivi è stato bloccato dalle perturbazioni nella relazione madre bambino. Di fatto è come se non funzionasse il sistema che, tramite la rimozione, salvaguarda la coscienza dal rischio di invasione da parte di un eccesso caotico di stimoli. Dunque mira del processo terapeutico sarà ripristinare la rimozione anziché puntare a toglierla (come si fa con i nevrotici)
La dipendenza
Tutta le questione che riguarda la dipendenza è un altro aspetto che ritroviamo nei casi difficili; non avendo sperimentato una buona dipendenza infantile essi diffidano di qualsiasi tipo di legame. Nella cura diventa allora necessario un prolungato e prudente avvicinamento, che tolleri il bisogno di queste persone nei primi periodi di trattamento di saltare o intervallare le sedute. Di fatto una volta iniziata la terapia l’attaccamento alla figura dell’analista si svela profondo. L’analista diventa un punto di riferimento nel caos di angosce confusionali e dubbi paralizzanti, una funzione di orientamento di cui si ha un enorme bisogno.
Angosce confusionali e Super-io
Inoltre nell’accostarci al paziente “difficile” dovremo tener conto delle sue angosce confusionali. La differenza fra parti sane e parti malate della personalità non é spesso chiara, così come non lo è quella fra ciò che è esterno e ciò che appartiene al sè. La terapia è allora uno strumento utile per mettere ordine nel caos interno.
Infine di costante reperimento è la presenza della struttura di un Super-io patologico, tirannico, che dà origine a sensi di colpa di natura persecutoria, condannando i desideri e i bisogni affettivi del paziente. Tale struttura andrà contenuta tramite la terapia, per evitare anche distorsioni rispetto alle comunicazioni analitiche (potenzialmente interpretabili come castranti ed aggressive data la presenza di un oggetto interno che ha sanzionato i tentativi di avvicinamento emotivo del bambino).