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Quando un legame familiare si rompe

Immagine metaforica in stile Van Gogh di un ponte di corda spezzato su un canyon, che rappresenta la rottura dei legami familiari e la persistenza delle connessioni emotive. Colori accesi e dinamici

Il taglio netto di un legame familiare

Spesso in terapia incontriamo persone così “scottate” da rapporti familiari complessi da aver eretto delle barriere invalicabili nei confronti del congiunto ritenuto responsabile di gran parte delle proprie difficoltà emotive. Alcune di loro sono così ingombrate da sentimenti negativi da scegliere di chiudere completamente le comunicazioni con alcuni parenti stretti, ritenuti responsabili di gran parte delle proprie difficoltà emotive.

La situazione più tipica riguarda il figlio o la figlia che ad un certo punto della propria vita decidono di non avere più rapporti con il padre. Più rara è la rottura nei confronti della madre, mentre non sono infrequenti allontanamenti definitivi fra fratelli o fra ex coniugi, anche quando ci sono dei figli in comune.

Puntualmente però, a tali recisioni nette non corrispondono miglioramenti significativi sul piano del benessere emotivo. Anzi, passato l’effetto “sollievo” successivo al taglio, la persona si ritrova come svuotata, perennemente triste, affetta da un senso di mancanza profondo e insanabile. L’amputazione stessa, pur avendo tolto di mezzo la fonte del “male”, impedisce di fatto di dimenticarsi davvero dell’arto mancante, reso sempre presente proprio dalla sua assenza.

Nonostante questo fatto, praticamente riscontrabile in ogni situazione, chi opta per la soluzione del “taglio netto” anche in terapia si mostra risoluto nel mantenere la decisione, a volte anche per anni prima che si presenti un dubbio.

In psicoterapia un’eventuale insistenza verso la riconciliazione da parte del curante non fa che aggravare il rifiuto verso il familiare, bloccando di molto la possibilità che la rigidità si sciolga in maniera naturale, come esito di un lavoro autonomo.

Le rotture fra parenti: quando l'odio soffoca l'amore

Dietro alla scelta di chiudere un legame fondante come quello con un genitore o addirittura con un figlio ci sono accumuli di frustrazioni e di rabbie non digerite. Spesso si tratta di dolori perpetratisi per anni (non necessariamente abusi gravi), che hanno portato nel tempo ad un amplificarsi a dismisura dell’odio rispetto al sentimento d'amore.

L’odio, insito in ogni legame affettivo nella misura in cui inevitabilmente ingenera dei disallineamenti più o meno importanti, ad un certo punto tracima come un fiume in piena non più tenuto insieme dagli argini dell’amore.

I livelli di frustrazione possono in alcuni casi raggiungere un’intensificazione tale da far sì che l’apparato psichico non riesca più a trattare il sentimento astioso se non attraverso un atto che pone fine all'eccesso di tensione.

Recidere il rapporto significa irrigidire in maniera permanente il distacco, che di per sé potrebbe essere temporaneo come una transitoria interruzione di corrente. Nel caso della rottura intenzionalmente mantenuta nel tempo l’arroccamento è definitivo, non più negoziabile. Il "basta" è senza appello.

Gli effetti a lungo temine del "basta"

Tuttavia ciò che molti ignorano è che questo “basta” costituisce un qualcosa di praticabile soltanto nella realtà dei fatti, non nel proprio intimo. Non parlare più, cambiare casa, non avere più contatti con l’agente urticante (il padre, il figlio, il fratello ecc..) mette sicuramente al riparo da alcuni effetti di contagio dati dalla convivenza o dall’eccesso di vicinanza ma non è sufficiente per “liberarsi” mentalmente una volta per tutte dal tormento.

Non è possibile infatti vivere “come se” una persona non fosse mai esistita. Anche la morte non libera da certe presenze, ormai interiorizzate. Anzi, più forte, più rigida, più pervasiva è la difesa più il malessere cresce nell’oscurità, di fatto rafforzandosi.

La sparizione nel reale, auspicata, voluta, volontariamente ricercata si traduce in presenza continua. Magari non necessariamente sotto la forma di un pensiero che va verso quello specifico familiare eliminato dalla propria vita ma nella modalità più subdola di un’irrequietezza o un'apatia inspiegabili.

Ciò che fa da sottofondo permanente alle giornate è un senso di “pesantezza” o in alternativa di “svuotamento”, come cucito addosso. Spesso esso costituisce il vero sintomo di entrata in una cura, che però non viene ricollegato in alcuna maniera al taglio. Capita che il paziente dica esplicitamente che sì, non parla da anni con il padre, ma qualsiasi impatto di questa situazione sui problemi lamentati durante la seduta viene negato. Anzi, di quello che è successo non se ne vuole proprio parlare, "tanto non serve a niente".

In molte di queste situazioni ai sintomi sopra citati si sovrappongono pure problematiche alimentari. Come se pesantezza e svuotamento prendessero corpo nella realtà, attraverso eccessi o digiuni, rappresentando il cibo l’oggetto genitoriale.

Ciò che imprigiona è l’oscillazione fra bisogno convulso di attaccamento al genitore assente e necessità di scrollarselo di dosso, in un “disimpasto pulsionale" fra amore e odio. Amore e odio infatti, senza riconoscimento dell’ambivalenza, racchiudono entrambi un alto potenziale distruttivo.

L’odio, non trattato ma eternizzato nella presa di distanza totale dall'altro "cattivo", avvelena l'animo mentre l’amore, ancora vivo sotto le ceneri, continua ad avanzare le sue perentorie pretese infantili (portando a struggimenti e rancori che non possono assopirsi). Da tale disimpasto deriva un’instabilità emotiva che può assumere i toni di una negatività luttuosa perenne, fino ad assumere i contorni di una vera e propria depressione.

Cosa si può fare in psicoterapia

La psicoterapia in questi casi viene richiesta per fronteggiare un senso di malessere sordo e permanente, che avvelena le relazioni, le passioni e tutti gli ambiti vitali dell'esistenza. Il lavoro psicologico però è ostacolato dalla tendenza negazionista del paziente, dalla sensazione che nulla si possa fare per cambiare le cose e dalla convinzione che il passato sia passato e basta.

Il lavoro di ricostruzione delle proprie vicende interiori risulta quindi difficilmente praticabile, soprattutto quello che riguarda i vissuti e le emozioni.

Il rischio è duplice: da una parte si può verificare un abbandono della cura per eccesso di chiusura, dall’altra può succedere che la persona, messa troppo presto a confronto con vissuti inaccettabili e privata dei suoi sistemi di sicurezza, vada incontro a crolli e disordini comportamentali ben più gravi di quelli lamentati in partenza.

Il curante in genere saggia prudentemente le possibilità elaborative del suo paziente, non illudendosi di poter sciogliere rapidamente tutte le sue difese affrontandole frontalmente. Gli effetti terapeutici, nei termini di una minimale ricomposizione della frattura, avvengono solo dopo un lavoro di analisi e di ricostruzione del rapporto con la figura genitoriale tagliata fuori dalla vita. Arrivare a poterne parlare costituisce già una forma di distensione e di possibilità di recupero.

La riconciliazione rappresenta un possibile esito di un percorso terapeutico, non la mira principale. Se si arriva a riconoscere e ad affrontare l’ambivalenza, si può approdare a un riannodamento fra amore e odio. In sostanza si capisce che nessun oggetto d'amore può essere mai del tutto adeguato, completamente buono in tutti i suoi aspetti.

Salvare l'amore imperfetto come conquista personale

Tale consapevolezza si unisce alla coscienza di quanto il rancore appesantisca l'animo, mentre l'amore costituisce una luce che riscalda in primis chi lo custodisce dentro se stesso. Scegliere di amare chi ha commesso degli errori e magari li commetterà ancora in futuro significa "salvare" l'amore imperfetto che ci lega a quella persona.

Non è importante che sia l'altro a redimersi o a capire; il perdono e il lasciar andare i sentimenti negativi li possiamo raggiungere in noi stessi. Non dimenticando l'accaduto, i torti subiti, le ingiustizie. Ma scegliendo di continuare a volere bene a colui che una volta ci ha protetto, curato e gratificato, e che nel fare ciò ha commesso molti errori di cui egli stesso non era in grado di rendersi conto.

Infondo chi mai siamo noi per giudicare l'altro, sia egli un genitore o un figlio? Quando tutti noi sbagliamo nelle relazioni siamo sempre in balia di un nostro "negativo" interiore rimasto irrisolto; perchè mai aggiungere allora del male al male che già c'è?

Prendere le distanze è legittimo e sacrosanto, mentre rompere è una violenza che si infligge soprattutto a se stessi, condannandosi a malumori, a sintomi psicofisici perenni e soprattutto all'impossibilità di maturare completamente come persone. Se impariamo a lasciare andare siamo veramente liberi; si può ricordare, essere coscienti della piccolezza altrui senza per questo ergerci a giudici inflessibili.

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