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La volontà di guarire

Un ostacolo enorme e frequentissimo che i clinici si trovano ad affrontare nella loro pratica è la non volontà di guarigione inconscia dei loro pazienti.

Pur chiedendo aiuto, pur esprimendo tutta la preoccupazione rispetto al loro stato ed affermando perentoriamente di voler tornare a stare bene, questi soggetti mostrano un ostinato attaccamento ai loro sintomi e agli schemi comportamentali ripetitivi ad essi associati.


Va da sé come un possibile successo terapeutico sia strettamente connesso alla corretta e rapida individuazione da parte del terapeuta di tale falso movimento. Una cura viene sì domandata, la sofferenza non è da mettere in discussione, ma il grande assente è la volontà decisa e profonda di abbracciare la vita in tutta la sua complessità, al di là degli idealismi rispetto a come dovrebbero andare le cose.

Chi ha delle buone chance di superare una crisi, di qualsiasi tipo essa sia, compie questo passo, preliminare a ogni psicoterapia. Si mostra cioè non solo di in grado di “vedere” il “reale” nudo e crudo, spogliato di tutti i filtri che lo abbelliscono, ma trova pure che la cosa sia interessante, come un viaggio intrapreso in un continente straniero e inospitale. Egli regge tale esplorazione  fuori dalla propria zona di confort perché è mosso dalla curiosità, dalla volontà di conoscere, di capire. Il suo obiettivo è sopravvivere al territorio aspro e irto di pericoli e per fare ciò deve guardare in faccia ciò che ha di fronte, prenderlo per quello che è e non per ciò che dovrebbe essere.

La resistenza alla terapia è dunque  la resistenza ad addentrasi profondamente dentro se stessi, (dentro al luogo straniero, poco carino o colorato che abita ognuno di noi) ma anche dentro alla stessa realtà circostante, ben diversa da ciò che superficialmente appare.

Questo non voler “guardare oltre” costringe a mantenere dei paraocchi, ovvero una modalità infantile all’insegna del rifiuto di ridimensionare il freudiano “principio di piacere”. Siccome la realtà interna o esterna è frustrante, non è come la vorrei, allora faccio finta che le cose non stiano come sono, mi rifugio nel vagheggiamento di un mondo immaginario dove tutto è conforme ai miei desideri e alle mie aspettative, dove posso lasciarmi cullare da un perenne e rassicurante abbraccio materno.

E così si crea inavvertitamente la trappola che conduce alla nevrosi, alla paralisi, al lamento perenne e all’autodistruttività. Trappola perché impedisce il contatto autentico con la vita, inteso come contaminazione, come insegnamento, come trasformazione anche attraverso i dolori, le frustrazioni e i fallimenti.

Il rifiuto del patimento, della precarietà e della “scomodità” insite nel fatto stesso di vivere condanna o alla morte in vita, alla costruzione di baluardi sempre più massicci per difendersi dai supposti  attacchi (diventare delle mummie morte per sfuggire la morte stessa), oppure al lamento perenne, alla percezione che nulla vada mai bene, al cambiare strada ogni volta nell’affannosa ricerca dell’Eden impossibile da raggiungere.

Come promuovere una via di uscita da tale gabbia narcisistica? Come forzare l’incontro con il reale schivato dal nevrotico tramite il rifugio nell’impotenza o nell’utopia?

Con alcuni pazienti il processo si compie automaticamente. Arrivano in terapia in un momento della loro vita in cui parte del lavoro l’hanno inconsapevolmente svolto da soli. Sono cioè pronti a fare il salto, serve loro solo una “spinta”. Di solito si tratta di una crisi, di un trauma, di una rottura cioè nel tran tran della ripetizione che, anziché venir risolta con una nuova azione sintomatica, innesca una riflessione diversa, una vera e propria “decisione”. Ora voglio davvero capire come funziono, voglio sapere, voglio penetrare in segreti che ho preferito mantenere negli anni.

Ma per la maggior parte dei casi la crisi non viene preventivamente “soggettivata” al di fuori del setting analitico, essa spinge ciecamente ad aggrapparsi convulsivamente al luogo della terapia, idealizzato come quell’Eden che nella vita reale cronicamente sfugge.

Dunque porsi come dei salvatori sbarra la strada ad un’uscita dal guscio ma lo ripropone fatalmente in terapia. La coppia analista-paziente assurge a modello della relazione appagante all’insegna del principio di piacere. E ciò rende alla lunga il lavoro impossibile.

Come fare allora? Il maestro Jacques Lacan aveva avuto in proposito l’intuizione di presentificare nella cura non l’Altro appagante ma al rovescio proprio quello  traumatico, in modo da promuovere l’incontro precisamente con ciò che è rifiutato in nome di una presunta realtà ideale. In linea teorica (e per alcuni casi anche pratica) la cosa funziona. Se il transfert verso l’analista è forte ci sono buone probabilità di riuscita. La terapia, anziché costituire il luogo rassicurante, diventa essa stessa  il terreno spinoso della vita che si cerca di schivare.

La cosa però ha dei contro. Se per il paziente tale incontro è intollerabile, nel breve abbandonerà la terapia o troverà dei modi per rendere il dispositivo inefficace, magari preparandosi i discorsi a casa. Il nevrotico trova sempre un modo per schivare il reale e l’intellettualizzazione o il ricorso alla parola vuota, alla narrazione cronachesca o all’esibizionismo ne sono una testimonianza.

Che fare allora? Intanto rassegnarsi al fatto che il lavoro terapeutico prevede grandi capacità di intuizione, di improvvisazione e soprattutto di inventiva. Seguire un protocollo, una tecnica standard o sintonizzarsi su una sola frequenza non portano mai da nessuna parte. E poi tener presente l’importanza di un’alternanza  fra una posizione di accoglienza ed una di franco e deciso “muro”. Fare muro è essenziale se vogliamo che il paziente incontri qualcosa di nuovo, ovvero la vita nella sua (interessante) asprezza. Come farlo resta appannaggio dello stile di ciascuno.

È faticoso fare il muro, è una condizione mentale più che pratica. Non si tratta di non parlare, di parlare o d’altro. Non c’è  in gioco una tecnica ma  per lo più una disposizione interna da parte del terapeuta a non soccombere sotto le macerie scaricate dal paziente, a mantenersi sempre lucido ma anche un po’ altrove, coraggiosamente nel mondo dei vivi e non in quello dei morti.

Disagio contemporaneo