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Apatia e cinismo nella mezza età

Molta sofferenza emotiva dell’adulto  è generata da un eccessivo attaccamento alle cose, alle situazioni o alle persone. Mano a mano che gli anni si susseguono le circostanze in cui si viene confrontati con la perdita si moltiplicano. Inoltre se in età giovanile il rilancio dopo una delusione è più semplice perché la percezione delle “possibilità future” è ancora marcata, con il procedere dell’età può capitare di accorgersi di non nutrire più una forte spinta desiderante.

Le mete, il successo, l’amore ecc…,  anche quando raggiunte, ad un certo punto vengono viste come illusioni, inganni della mente. La sensazione di perdita spinge verso l’apatia e il cinismo. Se tutto è destinato a perire, perché impegnarsi, perché investire energie che tanto andranno incontro allo stop del fattore tempo? 

La così detta crisi di mezza età può estendersi anche agli anni della vecchiaia, provocando chiusure e modalità disperate di vivere la propria decadenza fisica e mentale. I sintomi psichici della depressione possono diventare insopportabili e invalidanti, svuotando le giornate, privandole di senso e di piacere.

Sempre di più i pazienti più maturi rivolgono ai terapeuti delle domande che riguardano il senso. 

Perché mi dovrei alzare la mattina? Perché dovrei spendere quasi tutte le energie in un lavoro ben pagato, che una volta mi soddisfaceva mentre oggi mi appare pura routine? Perché dovrei continuare a stare con un partner che amavo e che non amo più? Perché dovrei buttarmi in una nuova storia che so già che finirà? Perché sacrificarmi per i miei figli che infondo sono degli egoisti? Perché dovrei continuare ad avere cura del mio aspetto se sto invecchiando? Cosa me ne faccio del benessere acquisito se tanto non mi importa più di niente? 

Non è semplice in terapia trattare queste questioni esistenziali. La stanchezza di esistere, il disincanto, il non credere più in nulla  si profilano come l’esacerbazione di uno stato latente in precedenza sufficientemente mascherato oppure il rovescio di vite vissute in maniera accellerata, all’insegna dell’entusiasmo e della volontà esaltata.

In entrambi i casi il terapeuta viene interpellato su un piano che esula i confini della terapia. Le persone che parlano così non sono francamente depresse, funzionano, lavorano, fanno tutto ciò che la società e gli affetti si aspettano da loro ma non hanno più forza vitale, sono come inaridite, incupite. Parlano e si comportano come qualcuno che prima è stato illuso di aver raggiunto una garanzia illimitata di ricchezza e poi si ritrova a fare i conti con la miseria più nera. 

Esse inoltre interpretano il loro stato come la logica conseguenza del passare degli anni. Da un lato non hanno torto, perché strutturalmente la maturità coincide con il presagio della finitezza e il ridimensionamento dell’immagine narcisistica di sé. Ma la perdita, la caduta dell’ illusione di felicità permanente su questa terra deve inesorabilmente portare pesantezza, rassegnazione e cupa insoddisfazione? 

L’esistenza del piacere di vivere indipendentemente da tutte le circostanze esterne è qualcosa che resta ancora largamente misterioso per quanto riguarda la sua genesi. 

Sicuramente chi rimane interiormente giovane non è colui che è sempre pronto a buttarsi in nuovi progetti o in nuove storie, stravolgendo magari con la chirurgia estetica il proprio aspetto e accompagnandosi a partner enormemente più giovani. 

Spesso chi si comporta così sta rispondendo maniacalmente al senso di vuoto della mezza età, non elaborandolo ma eludendolo con strategie destinate infine a farlo sentire ancora più solo e sradicato. 

Restare vivi nell’anima è una cosa diversa rispetto all’apparire giovani esteriormente o al vivere emozioni e passioni tipiche della gioventù. Chi ha incentrato il senso di sé principalmente sulle sensazioni euforiche di benessere e potenza si ritrova inevitabilmente a dibattersi fra nichilismo e maniacalità.

È una questione sottile; custodire un intimo piacere di vivere anche con poco, nonostante il grande ridimensionamento degli anni, nonostante le aggressioni del tempo, è una virtù sconosciuta, di cui non si parla molto forse perché non si associa per niente al consumo.

Virtù che si lega ad uno sguardo mite, rivolto al di fuori di sè e del proprio Io.

La sfida della terapia con un nichilista di mezza età appare allora questa, portarlo via via sul territorio non dell’evidenza ma della sostanza.

Infondo finché c’è possibilità di parola, di meraviglia, di curiosità verso l’altro, di gesti affettuosi, di piccoli e modesti riti quotidiani c’è tutto un mondo in cui vale comunque la pena essere di passaggio, pur nella caducità.

Disagio contemporaneo