Riflessioni sull’autostima
Qualunque terapeuta un po’ esperto sa quanto sia davvero inutile se non fallimentare lavorare direttamente sull’autostima di qualcuno.
La così detta autostima infatti, da intendersi come immagine narcisistica positiva, deve la sua costituzione al tempo antico dell’infanzia.
Le radici dell’insicurezza
Se il genitore o l’ambiente più prossimo restituisce sistematicamente un dubbio rispetto all’adeguatezza e all’amabilità del bambino, questi crescerà nutrendo delle insicurezze, nonostante magari ripetute prove della propria bravura.
La carenza di una sicurezza incrollabile in sé stessi non dipende dai successi o dagli insuccessi raggiunti nella realtà, spesso è un problema che affligge anche persone molto dotate, che purtroppo necessitano di continue conferme per sentire di valere qualcosa.
Alla base si ritrovano nella quasi totalità dei casi genitori esigenti, ipercritici, tendenzialmente freddi o comunque non in grado di celebrare l’esistenza del figlio con un amore incondizionato, privo di aspettative.
Le aspettative degli altri costituiscono infatti una nebbia che va ad offuscare la lucidità del soggetto insicuro. Egli a livello inconscio è sempre pronto a vedere in chiunque (nell’insegnante, nell’amico, nel partner, ma in certi casi persino nella cassiera del supermercato) l’ombra del genitore grandissimo che dall’alto della sua maestà giudica e si aspetta qualcosa.
Questo tipo di pressione, oltre che inibire la spontaneità e spingere dunque verso clamorosi auto sabotaggi, impedisce di vedere realmente l’altro per quello che è, portando ad una sua sistematica sopravvalutazione.
Tale disposizione bonaria verso l’altro e intransigente verso se stessi è molto insidiosa perché può portare a dare retta o ad accompagnarsi a persone palesemente sbagliate, a non riuscire a operare delle scelte libere guidate unicamente dal proprio sentire e in generale a non raggiungere quel benessere e quell’accordo interiore essenziali per una vita soddisfacente.
I sentimenti depressivi
L’eccesso di autocritica inoltre fa perdere obiettività, perché scivola nella mortificazione di sé e nella colpa, nemiche acerrime di ogni cambiamento funzionale ad un livello minimo di gioia e pace interiori.
Non a caso sono i sentimenti depressivi a fare da padroni nella sintomatologia psichica: tutto viene guardato e percepito alla luce di un proprio presunto difetto irrimediabile e incancellabile, i colori sbiadiscono, così come la sensatezza delle cose.
Colpa e indegnità danno luogo a sentimenti di spersonalizzazione e derealizzazione, spia di un meccanismo che tende a cancellare parola, soggettività, vitalità.
In queste depressioni la persona tenta di risolvere il problema che ha con sé stessa facendosi fuori, cancellandosi, sparendo. Non si tratta di veri e propri attacchi suicidari volti alla soppressione della vita biologica. Ciò che viene preso di mira è il sentimento dell’esserci, non l’esserci in quanto tale.
Se normalmente la psicoterapia va nella direzione della promozione di un atteggiamento autocritico (per rompere la stasi del lamento e del compiacimento di sé tipico di chi si sente sempre vittima dell’altro o della malasorte), in queste situazioni il processo è più delicato.
Gli obiettivi della psicoterapia
Non si può infatti, per risollevare l’insicuro, lavorare direttamente sulla sua autostima con la presunzione di potergliela modificare, magari dicendogli che la colpa è dell’altro, che lui vale e che si deve sentire in diritto di esistere.
Certo, in momenti cruciali della terapia mirare a colpevolizzare l’altro e sollevare, a paranoicizzare un po’ ha il suo senso, soprattutto per permettere alla persona (in preda ai deliri di colpa) di vivere l’esperienza del riconoscimento.
Il terapeuta deve sostanzialmente essere un alleato, fornire quella sponda che al soggetto manca nella vita, non per sostituirsi a figure significative ma per fungere da luogo neutro in cui si possono sperimentare pensieri, prospettive ed emozioni in vista di un salto che sarà il paziente stesso a praticare successivamente in autonomia.
La terapia si profila allora come un luogo in cui l’ovvio viene bucato e messo in discussione, un territorio in cui si aprono degli squarci, si vivono sensazioni e consapevolezze prima inesistenti.
L’autostima non viene direttamente restaurata con interventi mirati di manutenzione, con chissà quali tecniche o suggerimenti. La persona va portata gradatamente dentro se stessa, proprio perché l’abitudine a sopravvalutare l’altro l’ha progressivamente alienata e spossessata di quell’accordo profondo col proprio intimo (di cui ciascuno di noi necessita disperatamente per respirare).
L’effetto di un percorso simile è molto forte su tutto l’ambiente che circonda il paziente, i suoi cambiamenti sono spesso accolti con ostilità perché gli equilibri si basavano sulla sua sudditanza e obbedienza.
Il mancato appoggio parentale complica le cose per l’insicuro, alle prese con il tentativo di trovare la leva interiore che lo sostenga nel proprio processo di emancipazione e separazione.
Chi soffre per via di insicurezze profonde non può pensare di cancellarle e di sbarazzarsene definitivamente. Come per tuti gli inciampi interiori esse vanno prima conosciute a fondo e poi arginate, ovvero messe nelle condizioni di non nuocere troppo.
Il nemico non lo si può mai estirpare una volta per tutte uccidendolo o ammansendolo. Egli è sempre pronto a saltare fuori, cambiando magari volto.
Soltanto accettandone l’esistenza si può intelligentemente trovare il coraggio di non soccombere ogni volta ai suoi attacchi.