Il pantano del lamento
L’insoddisfazione, non la sofferenza, è la vera fonte dell’umano lamento. Infatti la sofferenza, legata a un trauma fisico o psicologico, in genere non conduce al lamento cronico perché induce in prima battuta un senso di paralisi totalizzante e secondariamente mobilita delle energie reattive inaspettate che tentano di ristabilire l’equilibrio perduto.
Dolore o lamentazione?
Si potrebbe addirittura dire che certi dolori, anche estremi, se riescono ad andare oltre il periodo iniziale (all’insegna di sensazioni depersonalizzanti e dunque rischiose per lo sviluppo di una depressione), risvegliano sentimenti vitali potenti che non lasciano spazio al piangersi addosso.
Il pianto di dolore non è uguale al pianto di autocommiserazione, è intenso ma breve, mai accompagnato da troppe parole. La sofferenza vera è come una coltellata di una lama affilata, rapida, improvvisa, precisa. È un’incisione, a cui seguono processi cicatrizzanti e ritorni ostinati alla vita non senza resti indelebili.
Altro è il lamento, la commiserazione di sé, l’indulgere in atteggiamenti luttuosi. Una modalità simile la troviamo in quadri depressivi o in personalità bloccate nel loro percorso di sviluppo, in cui resta ostinato l’attaccamento al principio di piacere. Il piacere cioè è visto infantilmente come un diritto, qualcosa di garantito dall’altro.
Il lamento nella depressione
Nelle situazioni di depressione la persona non riesce a reagire ad una perdita; il senso di stordimento dei primi momenti si trasforma in un vuoto che ingloba dentro di sé ogni cosa.
Il mondo viene guardato con occhi ciechi, a volte carichi di rimpianto di un tempo ideale e glorioso. La parola in questi casi è lenta, monocorde, stanca. I contenuti sono sempre gli stessi, il registro non viene mai cambiato.
E il lamento prevale su ogni possibilità di respiro: tutta la vita è sbagliata, tutte le scelte sono fallimentari, la propria persona non vale niente, nulla ha senso ecc…Tentare di bucare direttamente un discorso così è semplicemente impossibile perché il depresso parla come uno che la sa lunga, più di tutti, perché vicino a verità ultime e universali.
Inoltre nell’inerzia e nella stasi dell’esistenza colpita da depressione il pensiero prolifera selvaggiamente come un’erbaccia incolta, invadendo campi non suoi, soffocando istinti, desideri, capacità di reazione e azione.
Magari dopo anni di terapia in cui si è lavorato con estrema pazienza (gli attacchi frontali non servono a niente nei casi di depressione vera e propria), sopportando sedute e sedute invase da lamenti, si riesce a raccogliere qualche risultato.
A volte capita che la persona dopo anni si accorga improvvisamente e con un po’ di costernazione di essere in realtà meno depressa. Alla lunga la corrente contraria generata dalla terapia riesce a risospingere indietro detriti e mucillagini, ripulendo le acque dall’inquinamento del lamento.
Il lamento infantile
C’è poi il lamento di stampo più squisitamente infantile. È quello più diffuso nella nostra società del benessere, in cui il piacere è considerato un diritto. In molte personalità si verifica una specie di blocco della crescita, per cui di fronte a situazioni difficili permane uno stato di passività rimuginativa e di rivendicazione.
Ogni difficoltà è vissuta come un macigno insopportabile, innescando la lamentazione e la ricerca di una figura autorevole che possa mettere fine al male con il suo intervento risolutivo. L’aspettativa è che siano forze esterne a risolvere il problema, grande o piccolo che sia. Come fanno i bambini, nel tentativo di rinviare il più possibile la crescita.
Questa modalità negli adulti è difficile da trattare ed è tipica in chi è stato iper protetto da bambino. La colpa del proprio malessere in questi casi è sempre dell’altro, perché manca il concetto di una propria implicazione nell’esasperare il disagio.
Quando soffriamo per un torto subito, per una situazione che ci rende infelici prendersela con l’altro può essere comprensibile sulle prime ma perseverare in tale atteggiamento svela quasi sempre un deficit di consapevolezza.
Ciò che non si riesce a concepire è la propria debolezza, il contributo che essa fornisce al malessere, il surplus dato da un atteggiamento che potrebbe invece essere focalizzato e cambiato per fronteggiare in prima persona il problema.
“Se al lavoro o in famiglia mi trattano tutti così male, possibile che siano tutti ”cattivi”? Non è che certi atteggiamenti degli altri, sicuramente nei fatti non amichevoli, risvegliano in me antiche ferite al punto tale da inebetirmi e farmi perdere lucidità? Non varrebbe la pena, prima di ritirarmi dalla scena del mondo, fare un punto della situazione, vedere su quale parte di me potrei lavorare per rafforzarmi? E poi, questo lavoro, questo contesto interpersonale mi interessano davvero? Voglio davvero restare o preferisco allontanarmi in favore di situazioni che mi stimolano di più?”
Domande simili suppongono un interrogativo serio rispetto alle proprie fragilità unitamente alla disponibilità a mettersi in discussione e a tentare con tutti i mezzi di rafforzarsi.
Bisogna, per fare ciò, aver accettato che il mondo non è un luogo perfetto creato per accontentarci e coccolarci, ma abitabile e interessante nonostante le sue oggettive storture.
Ragionare così significa anche chiedersi cosa si vuole.Una volta raggiunta la capacità di stare al mondo, abbandonando posizioni passive d’anime belle e incomprese, bisogna chiedersi, al di là della così detta “convenienza”, cosa offrono davvero in profondità un certo ambiente, una tal situazione o relazione.
Ci voglio davvero stare? Se si o no perché? Allora restare ha il suo senso, così come troncare, proseguire il proprio percorso altrove.
Per tutte queste cose ci vuole la disponibilità a fare fatica, a caricarsi sulle spalle il peso di chi siamo e cosa vogliamo. Come adulti capaci di scelta e non bambini impauriti attaccati a mamma o papà.
Senza questa apertura resta la cittadella grigia del lamento e dell’insoddisfazione, comoda trappola mortale di tante anime assopite.