Narcisismo sano e narcisismo patologico
Il termine narcisismo è molto in voga di questi tempi, ricorre spesso nei discorsi delle persone alle prese con il tentativo di capire se stesse o gli altri. Esso non è mai evocato a sproposito, sebbene non sempre sia chiaro cosa distingue il narcisismo comune da quello francamente patologico.
Proviamo a fare chiarezza: a una prima parte un po’ più tecnica (che può eventualmente interessare anche ai non addetti ai lavori) segue una trattazione maggiormente divulgativa.
Differenza fra narcisismo sano e narcisismo malato
Il narcisismo per le teorie psicodinamiche altro non è che una fase evolutiva dello sviluppo psicoaffettivo.
Nel narcisismo così detto primario il bambino vive in una sorta di indifferenziazione, in cui non è ancora in grado di distinguere fra l’interno e l’esterno, dunque fra sé e l’altro. Il riconoscimento di tale differenza, facilitato dall’azione di contenimento e “rispecchiamento” della madre, è la condizione necessaria perché si possa sviluppare un legame affettivo con gli oggetti esterni.
Una quota di “investimento libidico” resta comunque legata all’Io. È il così detto narcisismo secondario, patologico se sproporzionato rispetto all’attenzione al mondo esterno, sano se si concretizza in un sentimento autonomo di autostima, resistente alle frustrazioni e non inibente la capacità di relazionarsi con l’altro.
Nella dinamica del narcisismo inoltre l’immagine ha un ruolo centrale. Come è noto la vista si sviluppa molto precocemente ed è un senso dominante. Il processo di progressivo riconoscimento della differenza fra l’interno e l’esterno e dunque fra l’Io e l’altro si lega alla visione della propria immagine riflessa nello specchio.
Se la reazione giubilatoria del bambino di fronte al proprio riflesso è accompagnata da un’altrettanto gioiosa e amorevole reazione materna, si stabilisce un buon rapporto con l’immagine di sè, rapporto comunque non esclusivo che lascia spazio alla curiosità verso l’altro. Mentre se la reazione della madre è eccessiva, oppure viene a mancare o addirittura coincide con una smorfia, la stabilità dell’immagine positiva diventa molto precaria.
Nel caso di reazione eccessiva della madre si può passare il messaggio che l’importante è essere al top sul piano dell’immagine. Stessa cosa se la reazione è di segno negativo. L’assenza di reazione può preludere inoltre alla formazione di un pericoloso buco sul piano dell’identità, che espone a gravi depressioni spesso compensate attraverso una “erotizzazione” particolare dell’immagine (amore esagerato per il bello ecc…)
L’immagine di per sé è dunque molto insidiosa come riferimento privilegiato per lo sviluppo di un senso di identità equilibrato.
L’immagine infatti è fissa, perfetta, irraggiungibile. Restare ancorati all’immagine significa inseguire perpetuamente una perfezione continuamente sfuggente. E ancora di più finire nella gabbia di un rapporto solitario con sé stessi, con ciò che si vorrebbe essere. Gli altri diventano a loro volta degli specchi in cui cercare conferme anziché delle persone da scoprire al di là dell’apparenza.
Si capisce come la linea che separa il narcisismo sano dal narcisismo malato è sottile ma decisiva. La differenza a livello di sviluppo psico affettivo sembra farla la madre o l’ambiente in cui cresce il bambino.
Semplificando un po’ si potrebbe dire che nel narcisismo sano l’autostima di base è equilibrata perché la propria immagine è considerata di valore non per le sue caratteristiche oggettive ma per il fatto di essere particolare, unica. È l’amore incondizionato che assicura questo rapporto sereno con l’immagine, che pacifica la lotta potenzialmente mortale tra un soggetto e la sua rappresentazione ideale.
L’amore per la particolarità va oltre l’immagine perché vede al di là di essa, contempla qualcosa di invisibile agli occhi. È il famoso effetto di riconoscimento, l’unico in grado di farci sentire amati e di donarci il senso interiore dell’amore e del valore di noi stessi e degli altri.
Nel narcisismo patologico questo effetto di riconoscimento non si verifica, nemmeno per un istante, dunque il soggetto si deve arrangiare con quello che ha. Se l’immagine è tutto ciò che gli viene proposto si può sviluppare un falso sé, ovvero un’identità basata sull’immagine liscia e perfetta di sé.
L’altro come altro e non come doppio resta sullo sfondo, perché l’immagine ne ha preso il posto. Ecco perché il narcisista vero ha sempre un sé grandioso, tende a mentire, a giudicare e a manipolare gli altri, a usarli e a gettali a seconda dei propri comodi e capricci. È come se gli mancasse una bussola interiore, che permette di presagire, di vedere e di sentire gli universi sconosciuti che si nascondono dietro l’apparenza delle persone.
Nel suo mondo interno inoltre prevale un senso di vuoto risucchiante, che lui si industria a lenire cercando compulsivamente specchi in cui rintracciare conferme. La sua inumanità nelle relazioni colpisce subito l’occhio esperto o si svela dopo un po’, dopo un periodo di idealizzazione a cui inevitabilmente segue una svalutazione dell’altro pressoché totale.
Non sono tanto i difetti dell’altro a venire svalutati dal narcisista; egli dopo un po’ deve chiudere i rapporti in cui è emersa una sua autenticità perché questi rapporti sono ormai infangati da ciò che lui non può tollerare, la sua verità sotto la maschera.
È facile anche che per pura convenienza il narcisista stabilisca dei rapporti longevi, in cui però lui non c’è per nulla, né affettivamente né concretamente. In lui non c’è traccia di gratitudine. Non sono nemmeno rari i tradimenti seriali, a cui si accompagnano gelosie malsane ai limiti del delirio. Nella misura in cui qualcuno si divincola dalla loro presa manipolatoria si apre la voragine della caduta dell’immagine, protesi necessaria per proteggere il precario senso di identità.
Il narcisista nella terapia
In terapia quasi mai incontriamo narcisisti puri, e quando accade in genere essi arrivano perché spinti da un partner che minaccia di lasciarli perché esasperato dalla loro freddezza, dai loro tradimenti compulsivi o dalle loro crisi di gelosia folle.
Essi non vanno in terapia perché non vogliono venire messi in discussione. Percepiscono che nel luogo della terapia si va alla ricerca della verità, ma non sono disposti a cercarla perché ciò comporterebbe la rinuncia al loro falso sé, ormai protesi necessaria per vivere.
La terapia dunque ha le ore contate, come sempre accade quando la domanda iniziale di cura non si aggancia ad una sofferenza vera e alla preparazione a sostenere l’incontro doloroso con certe verità.
In terapia i narcisisti puri non raccontano mai in maniera precisa ciò che è loro accaduto, si fanno magari prendere da un racconto un po’ romanzato e approssimativo, spesso ricco di dettagli inutili, di contraddizioni e affermazioni ambigue.
Per lo più si mettono in attesa di una risposta ai loro problemi da parte del terapeuta. Siccome nessuna guarigione accade (perché il terapeuta non ha poteri paranormali e le sue armi sono efficaci solo se il lavoro lo si porta avanti entrambi), lo scetticismo e la presunzione ingombrano lo spazio terapeutico.
La terapia può offrire comunque un certo ristoro, soprattutto se il terapeuta sta attento a non far crollare improvvisamente la maschera.
La vera fuga accade infatti quando vengono pronunciate cose che il soggetto non riesce ad assumere, che deve negare per sopravvivere. La caduta dell’immagine può risultare così disagevole da impedire ogni protrarsi dei colloqui, ormai non più consolanti ma angoscianti come l’incontro senza veli con se stessi.