La forza dell’interpretazione
Interpretazione in terapia non significa soltanto restituzione (tramite la parola dell’analista) dei motivi inconsci sottesi ad azioni sintomatiche, a ripetizioni di schemi relazionali sconfortanti o a pensieri e affetti deprimenti.
L’equipaggiamento del terapeuta
Il lavoro di traduzione da parte del terapeuta e la sua comunicazione attraverso il linguaggio è solo l’aspetto “esteriore” di un processo che implica una dimensione non meramente logica ed intellettuale.
Far vedere ad un essere umano le connessioni inconsce fra la sua sofferenza attuale e precisi accadimenti del passato, mettere a fuoco insieme a lui l’intensità del dolore a cui una volta è stato esposto e le ricadute in termini di atteggiamenti difensivi apparentemente assurdi della sua vita presente non è un compito di enigmistica.
Lavorare con la sofferenza mentale implica necessariamente la dotazione, nel terapeuta almeno, di un equipaggiamento emotivo particolare. Esso chiaramente non può sostituire l’intelligenza, necessaria per cogliere i nessi davvero rilevanti, per non perdersi nella massa di informazioni superflue e per riconoscere i momenti davvero salienti nel corso del lavoro clinico.
Ma la prontezza mentale, condizione necessaria, non è sufficiente affinché il processo interpretativo sia efficace.
Ciò che distingue un terapeuta da un traduttore di un testo scritto (o un risolutore di un test di logica) è l’oggetto con cui ha a che fare. I terapeuti lavorano con oggetti animati, non inerti. Lavorano con le persone.
Oltre il transfert: l’essere dell’analista
Alcuni approcci in seno alla psicoanalisi credono che l’inconscio di una persona possa essere trattato “sotto transfert” come un testo scritto, possa cioè essere analizzato asetticamente. L’esistenza del “transfert” (l’analista è per il paziente nella posizione di un oggetto particolare) per costoro è ciò che permette una modalità simile, neutra e impersonale.
Il termine “transfert” ha origini antiche, e in effetti veniva utilizzato dal fondatore della psicoanalisi per tener conto dei vissuti emotivi del paziente verso il terapeuta, spesso molto intensi e potenzialmente incendiari, connessi al suo venir scambiato nell’inconscio col padre o la madre.
“Controtransfert” viceversa tiene conto delle possibili reazioni emotive dell’analista.
Si sa che l’analista non parla di sè, non propone un’amicizia, non giudica con il metro della simpatia personale. Può accadere però, essendo una persona, che qualcosa si muova in lui, favorendo l’intuizione o al contrario mettendo a rischio il suo operato.
Tuttavia “transfert” e “controtransfert” non sono fenomeni statici. L’errore del terapeuta che si crede ben “installato” è quello per l’appunto di ricorrere all’interpretazione senza il riferimento alla sensibilità emotiva, seguendo solo la logica (non sempre per altro esente da errore).
Se il paziente interrompe il trattamento oppure rifiuta l’interpretazione si dà la responsabilità ad un “transfert negativo”, legato alle sue “resistenze” e ai suoi nuclei patogeni che lo portano a non essere recettivo e a ripetere relazioni disfunzionali.
I costrutti di transfert e controtransfert sono utilissimi e ogni analista dovrebbe tenerne conto. Essi scattano automaticamente e vanno saputi riconoscere. Ma ridurre tutta la dinamica relazionale nei termini di un gioco di specchi inconscio è un errore e porta a fallire nell’uso dell’interpretazione e delle sue potenzialità terapeutiche (cosi come al rovescio risulta dannoso vedere solo il qui ed ora della coppia in una acefala confusività empatica).
C’è qualcosa che interferisce nel rapporto analista-paziente che va oltre la riedizione delle relazioni del passato, oltre il fantasma dell’oggetto perduto, oltre la simpatia e la semplice avversione.
E questo qualcosa ha a che vedere con la persona in carne ed ossa del terapeuta, con la sua disponibilità come essere umano, con la sua sensibilità, con la sua forza, con la sua fiducia. Non con il suo essere simpatico, bello o accattivante.
La verità della persona che siamo salta fuori inevitabilmente ed è ad alcuni tratti specifici della personalità di un analista a cui si deve il potenziale davvero curativo e trasformativo di un’analisi che sia tale (non un puro gioco mentale)
L’interpretazione fallisce se viene proposta nel momento sbagliato, ed è la sensibilità umana che stabilisce ciò, non il calcolo. Parimenti essa fallisce se è priva di forza emotiva, se il tono con cui è pronunciata è vagamente accusatorio, o monocorde o distratto. Cade nel vuoto pure se non ci si crede, o se manca la disponibilità a rimetterla in discussione a seguito delle obiezioni del paziente.
Perché l’interpretazione vada a segno ci vuole qualcosa di più.
I grandi della psicoanalisi postfreudiana l’hanno detto: Bion, Winnicott, Green, Bollas.
La vitalità non maniacale dell’analista, la sua autenticità, la sua disponibilità ad una capacità “negativa” (stare nel silenzio non mortificante, nell’attesa fiduciosa nonostante la tempesta), la sua “sensibilità emotiva” verso il non senso della sofferenza, la sua prontezza e fermezza.
Persino Lacan, contraddicendo alcuni assiomi della sua dottrina, si riferiva all’ “essere” dell’analista e alla sua “necessaria implicazione”
Poi ogni terapeuta è e resta umano, con le sue ombre, questioni irrisolte e cadute personali.
L’importante è restare coscienti che ci siamo eccome come “persone” quando lavoriamo, cercare di cancellarsi va bene nel senso della messa fra parentesi delle proprie questioni in favore dell’ascolto, non in quello della comoda fuga dalla “necessaria implicazione”.
È da ciò che siamo che dipende molta parte della salute mentale presente e futura dei nostri assistiti.