Che cos’è il cambiamento?
Prima di iniziare un percorso terapeutico (o durante le sue prime fasi) non è raro che le persone si pongano delle domande rispetto al tema del cambiamento.
Cambiare significa diventare qualcun altro?
Molte resistenze ad intraprendere un lavoro su di sè affondano le radici in uno scetticismo di fondo rispetto alla possibilità di cambiare davvero attitudini e comportamenti sintomatici.
Tale atteggiamento, un misto di rassegnazione e di paura, è comprensibile e anche legittimo.
“Se ho passato una vita a convivere con certe parti del mio carattere come posso pensare di liberarmi del fardello con qualche colloquio?“
“E poi, perché dovrei permettere a qualcuno di giudicarmi con occhio clinico e di violare i miei confini? Perché sottopormi a questa violenza? E poi, se cambiassi davvero, chi potrei diventare? Non sarebbe come perdersi? Almeno adesso so chi sono.”
A vedere bene tali argomentazioni, in sè coerenti, si basano su un’idea del cambiamento diffusa (perfino fra gli stessi curanti) ma profondamente dannosa.
Si pensa cioè che cambiamento coincida con stravolgimento della personalità, con suo adeguamento a standard di “normalità” e di “desiderabilità” sociale.
Alcuni approcci terapeutici in effetti sottendono una mentalità simile, spingendo troppo sul versante dell’adattamento e promuovendo una direzione della cura autoritaria.
Ma nessun metodo può mettere al riparo totalmente da questo rischio omologante; quale che sia il punto di vista teorico è nella mentalità inconscia del singolo terapeuta che si annida il pericolo.
Cambiare quindi non può umanamente coincidere con il diventare qualcun altro, con il mettersi in riga, con il reprimere dolorosamente parti di sè (giudicandole magari come insane ed inappropriate).
Il cambiamento come “alleggerimento”
Il vero cambiamento consiste in una sorta di “alleggerimento” del sè, cioè in una ritrovata capacità di andare avanti fiduciosamente, potendo costruire una vita il più possibile vicina ai veri bisogni del sè profondo.
Come ci si arriva?
È qui il punto fondamentale che differenzia un trattamento “correttivo” da uno “trasformativo”.
Le asperità caratteriali possono ammorbidirsi se esse trovano in primis uno spazio di comprensione. La diagnosi aiuta il clinico non a giudicare e a reprimere ma a inquadrare un certo pattern comportamentale. Esistono schemi che si ripetono, poi le persone restano tutte diverse.
In un buon lavoro terapeutico l’essere umano sofferente non ha mai l’impressione di venir etichettato, piuttosto si sente finalmente “capito”.
Capire un’irregolarità del carattere vuol dire coglierne il valore di “soluzione” rispetto ai piccoli o grandi traumi vissuti nel corso della crescita.
Alcuni atteggiamenti, magari biologicamente innati (c’è da tenere sempre presente l’aspetto innato di certe caratteristiche umane) si possono rinforzare, esasperare ed espandere in risposta ad un ambiente che per vari motivi è stato deficitario rispetto a bisogni vitali di accudimento e di sicurezza.
Così un carattere a detta di tutti “intrattabile” trova proprio in quel suo modo di essere “insopportabile” una compensazione irrinunciabile. Analogamente la “freddezza chirurgica”, il “distacco siderale” svolgono una funzione di difesa e compensatoria rispetto a sottostanti fragilità.
Se il clinico riesce a comprendere tutto ciò, ad intercettare nella storia di vita il bisogno d’amore ripetutamente frustrato (e trasformato nel carattere visibile di attacco o difesa) può lentamente aprire un varco nella ripetizione degli schemi più distruttivi.
La comprensione ad un certo punto, una volta che si palesa chiaramente nella mente del curante, si può comunicare, come un’interpretazione o una ricostruzione dei motivi di fondo di sofferenza.
Essa dapprima può restare nella mente di chi è in cura come una consapevolezza puramente razionale, me nel procedere del processo terapeutico (a volte in coincidenza di un’intensificazione del malessere) può venir agganciata e integrata da parti di sè più profonde, muovendo emozioni ed affetti molto potenti.
La persona ad un certo punto “si ritrova“ cambiata, senza esattamente sapere perché. Le difese hanno mollato parte della presa, perché finalmente si è potuto buttare fuori, dire, venire ascoltati con precisione dall’altro e infine da se stessi.
L’interpretazione fa centro quando viene pienamente ascoltata, riconosciuta come vera e fatta propria, rianimando la vita congelata.
Tale alleggerimento coincide con il cambiamento. Si è sempre ciò che si è, solo meno ingombrati dalla paura e in grado di affrontare la vita attingendo dalle proprie potenzialità anziché dai propri buchi neri.
Si potrebbe addirittura affermare che cambiare veramente vuol dire diventare “ancora di più” se stessi, ancora più autentici, liberi e originali nel proprio modo di essere.
Dunque il parametro da seguire per capire la bontà del percorso psicoterapeutico che si sta seguendo è e resta uno solo: mi sento “capito”, “accolto”, “contenuto”, oppure ho l’impressione di trovarmi steso su un tavolo chirurgico di una sala operatoria?