Alleanza terapeutica
Perché una psicoterapia funzioni bisogna che il terapeuta sia “realmente” e genuinamente un alleato del suo paziente.
In psicoterapia infatti recite, seduzioni e giochi di prestigio non portano a nulla. Magari la terapia dura anche vent’anni, con reciproca soddisfazione di analista e paziente. Ma se manca il pezzo fondamentale, ossia l’autenticità, sostanzialmente nulla accade e nulla si muove. I due si possono guardare allo specchio all’infinito, soddisfare la reciproca esigenza narcisistica senza aprire mai gli occhi.
La verità: imprescindibile e terapeutica
È un dato di fatto: perché si sviluppi un cambiamento che sia tale bisogna che entrambi gli attori siano “veri”, si avvicinino a cose “vere” e agiscano secondo “verità”.
Il paziente va da sè che sulle prime possa rifugiarsi in modalità comunicative mistificatorie, che gli sono note e familiari. Se non è abituato a essere se stesso certo non sarà subito “vero” nella prima seduta.
Al terapeuta resta il compito di portarlo fuori dalla simulazione conscia o inconscia in cui si è perso, spesso motivo di fondo delle sofferenze lamentate. Può volerci una seduta, possono servire anni.
In ogni caso è importante che sia il terapeuta ad aprire il varco, con garbo e sensibilità, senza inutili compiacimenti. Egli non si trova nella situazione di analisi per mostrare qualcosa a qualcuno: è lì a disposizione del suo paziente, e il suo lavoro consiste in questo sguardo benevolo ma neutro, dimentico di se stesso, dei propri gusti, simpatie ecc…
Il terapeuta è uno specialista dell’ascolto, non perché è in grado di registrare/sopportare le parole delle persone per ore ed ore, ma perché sa andare oltre quanto gli viene detto. Egli mira all’essenziale, alla “cosa vera” occultata da coltri di parole, atteggiamenti, difese.
Al terapeuta, quando lavora, interessa “davvero” l’altro. L’altro e non se stesso (se non nella misura in cui desidera essere pagato per il suo lavoro, come ogni lavoratore necessita del riconoscimento del proprio sforzo).
Se manca questo interesse spontaneo verso l’altro, se non c’è curiosità mista a benevolenza, se non c’è silenzio rispetto alle proprie questioni personali non c’è terapia ma qualcos’altro.
Non mancano nella vita di un terapeuta episodi di interferenze emotive ed impasse. La stanchezza può portare all’errore, in genere però un buon terapeuta sa utilizzare il materiale inconscio personale evocato dal paziente in modo costruttivo anziché distruttivo. A volte anche dei sentimenti negativi possono essere usati proficuamente, se non sono scaricati direttamente sul paziente ma interpretati, filtrati e usati come ulteriori strumenti conoscitivi della verità in gioco.
L’alleanza terapeutica: insieme nella “selva oscura”
L’alleanza terapeutica è un effetto di questa disponibilità non artefatta. Ogni paziente è in grado di sentire e di recepire ciò che accade a livello inconscio.
Magari non sa tradurre ciò che avverte, ma il suo inconscio è infallibile nel riconoscere quando può fidarsi davvero e dunque quando può permettere all’altro di guardargli dentro.
Il tema dell’alleanza è cruciale: più essa si fa solida più entrambi ci si addentra nella “selva oscura”, senza certezze e armati soltanto del desiderio di strappare all’oscurità dei brandelli di luce.
La gioia, quando si illuminano dei punti enigmatici, è sempre di entrambi. Nello spazio senza luogo e al di là del tempo della terapia si è sullo stesso piano, benché in posizioni diverse.
La guida resta la guida anche quando a condurla per mano è l’assistito. Restare se stessi nel caos, nel “non ancora pensato” diventa possibile perché la fiducia è forte e poggia su una solidità costruita nel tempo.
Allora il cambiamento comincia ad attuarsi, senza intenzione cosciente. Esso è l’effetto non suggestivo dello sforzo congiunto di venire a capo di enigmi e verità apparentemente insondabili. È l’effetto liberatorio della scoperta e della sua accoglienza senza più difese.
Quando il lavoro può dirsi terminato? Lo decide sempre il paziente.
Personalmente non amo posizioni di autorità oracolari. Il lavoro in genere finisce quando la persona sente nel profondo che basta così, almeno per ora ne ha abbastanza. Ciò risuona o non risuona con la percezione dell’analista, ma tutto ciò che conta è la volontà libera e sovrana di chi chiede la cura.