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Sintomo isterico: tra ribellione e schiavitù

Noi clinici tendiamo a considerare valida ancor oggi la teoria delle pulsioni del padre della psicoanalisi, da cui scaturisce l'ipotesi sull'eziologia sessuale di tali problematiche. Ciò significa che riteniamo che alla loro base vi sia una rimozione di pulsioni sessuali, le quali, impedite nella loro scarica, trovano una soddisfazione sostitutiva nel sintomo invalidante. Accanto al disagio rintracciamo dunque una quota di godimento, che è poi ciò che rende la situazione di malessere inerziale e difficile da scardinare. Da un lato il patimento rappresenta una ribellione a una repressione, un torto subito e dunque in ciò ha un valore assolutamente da riconoscere e valorizzare in quanto rappresenta una spinta separativa del soggetto, dall'altro mette sotto scacco la sua vita, subordinando qualsiasi soddisfazione possibile a un godimento inconscio inappropriato e chiuso su se stesso.

Ma che significa rimozione della pulsione? Vuol dire non vivere una vita sessuale? Significa frigidità o impotenza tout court? Assolutamente no. Purtroppo la teoria freudiana delle pulsioni a livello di divulgazione di massa ha subito importanti riduzionismi e stereotipizzazioni da cui sono scaturiti grossolani equivoci e banalizzazioni. La pulsione non rappresenta altro che un'energia psichica, una spinta vitale, una corrente di desiderio, di vitalità, una forza propulsiva e a tratti sovversiva. E' la vita stessa. Ha una matrice biologica, fisica, ma non si riduce a essa perché la cultura e il linguaggio la trasformano profondamente. Si tratta del campo della vera, autentica realizzazione personale di un individuo. Non vuol dire affatto mero esercizio della sessualità.

Ora questa forza pulsionale, vitale, trascinante e dunque potenzialmente apportatrice di disordine e insubordinazione, a causa delle limitazioni imposte dal vivere nella società, si trova soggetta ad ogni genere di limitazione. E che venga limitata non è un male, anzi, quando ciò non accade non osserviamo mai pienezza o equilibrio ma al contrario dispersione e perdita di confini. Dunque i problemi nascono quando c'è un eccesso nell'esercizio del limite, della castrazione, dell'imposizione della volontà altrui sulla realizzazione di un soggetto, oppure al contrario quando l'eccesso sta nell' assoluta assenza di argini. In generale le complicazioni di ordine nevrotico si verificano nei casi in cui un bambino prima, e un adolescente poi, sono esposti a figure genitoriali o troppo autoritarie o eccessivamente permissive, in ogni caso in difficoltà nel fornire un esempio di cosa può voler dire realizzare il proprio desiderio pur nell'orizzonte inaggirabile del limite. La vitalità del desiderio soggettivo finisce con l'andare incontro a mortificazione, rinuncia, adeguamento alle aspettative genitoriali. Non si aggancia armonicamente alla legge, al limite e finisce per affermarsi alla fine solo come rifiuto, ribellione, distruzione, invalidamento di sè.

A livello psichico chiamiamo rimozione il meccanismo che scatta quando la pulsione di un soggetto incontra degli impedimenti alla sua soddisfazione. Dunque l'energia non viene azzerata, sopravvive relegata in una zona della mente fuori dal controllo dell'Io, che chiamiamo inconscio. L'inconscio però non se ne sta buono, costituendo una buona fetta della nostra attività mentale ed essendo una sorta di depositario delle nostre verità, cerca di esprimersi, spesso facendo interferenza sulle attività coscienti. Ecco che compaiono dei sintomi, qualcosa si inceppa, fa da ostacolo alla nostra volontà cosciente. Nell'isteria, al contrario della nevrosi ossessiva, questi zoppicamenti li ritroviamo a livello del corpo, sotto forma di blocchi o malfunzionamenti di specifici distretti corporei. Nei nevrotici ossessivi l'interferenza dell'inconscio la vediamo invece nel mentale, non è il corpo a venire tarpato ma l'attività di pensiero, che va incontro a inibizioni di vario genere.

Una psicoterapia ispirata dalla psicoanalisi, detto ciò, non andrà a tentare di estirpare attraverso metodiche coercitive il sintomo. Lo valorizzerà invece, perché vedrà in esso la spia di una qualche vitalità in movimento, di una spinta soggettiva a tentare di separarsi dalle attese dell'Altro per divenire se stessi. L'arresto che un sintomo porta con sè, sia esso negli studi o nel lavoro, non va mai considerato come un male ma come un punto di partenza per una possibile, autentica rinascita. Solo grazie a questo atteggiamento di fondo mai giudicante del terapeuta sarà possibile affrontare la parte in ombra dei sintomi, quella che inchioda chi ne soffre a non fare nulla e a crogiolarsi nella propria sofferenza.

<<Che guadagno ne ho in tutto questo>> costituisce la domanda fondamentale che apre la via a una presa di coscienza profonda della propria implicazione nel mantenere il male che si denuncia. Se il patimento deriva dall'Altro, da un certo punto in poi siamo noi stessi a mantenerlo e paradossalmente a goderne. Poter prenderne atto, cogliere la soddisfazione dell'insoddisfazione è il passo più difficile ma decisivo per accedere a una qualche soddisfazione possibile nel presente, non più proiettata in un mondo ideale, perfetto e irraggiungibile.

Questo tipo di approccio appare molto faticoso perché presuppone di accogliere e di assumere ciò di cui siamo solo inconsciamente responsabili. Vuol dire prendere e accettare quello che c'è, ora, adesso, per poter godere finalmente della vita, pur nella sua imperfezione.