Sofferenza d’amore
Ogni sofferenza dell’anima nasconde in filigrana una sofferenza d’amore. Sempre, dietro ad una domanda di aiuto, ad una crisi esistenziale si nasconde uno strappo, una delusione, un senso d’esser stati “mal amati”.
Quando una storia personale si disvela intimamente nella stanza d’analisi, ecco che si alza il sipario sugli incidenti del passato, su quegli eventi più o meno drammatici che hanno lasciato il segno. Tutti hanno a che vedere con l’amore, con la qualità essenziale dell’amore, l’accoglienza senza condizioni, senza ma, senza forse.
Le basi della fiducia
L’amore è il sì deciso alla vita, in tutte le sue forme. In alcune situazioni scopriamo che esso è venuto a mancare radicalmente, alternandosi magari ad eccessi fagocitanti: si spalancano allora gli abissi del dolore psichico profondo, i tentativi disperati e le invenzioni per tenersi a galla nonostante il vortice di nullità esistenziale sempre in agguato.
E poi osserviamo tutta la gamma delle incidenze nefaste dell’amore “irrisolto”: l’amore che riconosce ma a certe condizioni, che certamente protegge però lega a sensi di colpa, che dà eppure non lascia liberi, che valorizza inchiodando tuttavia ad aspettative senza fine.
Le sofferenze d’amore che non si rimarginano nella giovinezza o da adulti non sono altro che il riflesso di ciò che è stato nell’infanzia. È in quel tempo che si formano le basi dell’affettività. Un rifiuto può dunque portare alla luce antiche ferite, così come una relazione “malata” (che cioè produce continue lacerazioni anziché equilibrio e benessere) si rivela la ripetizione di qualcosa che si è già vissuto in epoche anteriori.
Il senso di essere stati benvoluti per ciò che si è getta le basi di quella che generalmente chiamiamo fiducia in se stessi e che potremmo più semplicemente definire amor proprio. È dal sentimento del valore di fondo della propria persona che deriva il superamento di una mancata corresponsione sentimentale o di un fallimento amoroso.
È da lì che nasce la forza di non invischiarsi in situazioni emotive frustranti, all’insegna dell’instabilità, della precarietà o del conflitto perenne. Ed è ancora dalla stessa fonte che scaturisce la spontaneità in antitesi alla paura, l’andare verso la diversità dell’altro con curiosità, senza il timore irrazionale di venirne scombussolati.
Masochismo e sadismo inconsapevoli
Essere stati “mal amati” ha varie forme e sfaccettature e si connette ad una sofferenza sintomatica in campo relazionale (e spesso anche in quello più ampiamente esistenziale) che oscilla fra i poli del masochismo e del sadismo inconsapevoli. Autosabotaggio e spietatezza verso l’altro ne costituiscono gli esiti più comuni.
Chi ha percepito di dover compiacere una madre o un padre per ottenerne l’approvazione e quindi l’amore, tende anche in età avanzata a rimanere appeso al giudizio altrui, a non vivere pienamente la propria vita ma più che altro il sogno di un altro. Può legarsi a qualcuno non perché lo desideri davvero ma perché ritiene sia socialmente desiderabile, dunque desiderabile agli occhi dell’altro ma non ai suoi. Potrà poi nutrire sentimenti d’odio inconscio verso il partner, non voluto davvero. Lo subirà e tiranneggerà allo stesso tempo, in un intrico difficilmente risolvibile. Oppure, nel momento in cui accosterà qualcuno che lo coinvolge davvero, sarà tentato dalla fuga, perché troverà sempre qualcosa fuori posto, qualcosa che non va, non avendo dentro di sè alcuna cognizione di cosa significhi amare.
La delusione da parte di un genitore per qualche motivo emotivamente distante tipicamente espone ad incontri difficili ma decisamente intensi, in un inconscio tentativo di regolare i conti una volta per tutte. Si apre così la via alla ripetizione di un’esperienza dolorosa ma altamente coinvolgente, che lega indissolubilmente amore e dolore. Soffrire sembra l’obiettivo di molte relazioni che seguono questa logica.
Se quindi esiste una sofferenza d’amore non evitabile, legata all’aleatorietà strutturale del desiderio altrui, essa diventa insormontabile e sfocia nel “patologico” quando risveglia vecchi conflitti mai superati o mai nemmeno messi a fuoco.
La sfida dell’analisi
L’analisi in questo senso aiuta molto perché offre la chance di acquisire una qualche consapevolezza rispetto alla ripetizione cieca di meccanismi inconsci. Tuttavia essa incontra il limite di quello che in gergo chiamiamo “godimento” della sofferenza, dinamica irrazionale ma profondamente connaturata alla natura umana.
La sfida insita in ogni percorso che non si limita a lenire il dolore è proprio quella di incidere questo godimento, romperne la ripetizione. Sono indispensabili non solo la disponibilità radicale a mettersi in discussione, la fiducia e l’amore di transfert verso il terapeuta. Tutte queste cose sono necessarie ma non sufficienti, possono dare luogo a intellettualizzazioni senza fine che non sfociano mai in alcun cambiamento della pozione di fondo.
La terapia non può cambiare ciò che è stato. Non può nemmeno cancellare ciò che si è inciso con forza come una traccia indelebile. Può tuttavia nel tempo, impercettibilmente o con accelerate improvvise, circoscriverla, depotenziarla nella portata traumatica.
Qualcosa accade a partire dalla parola ma oltre la parola stessa. È come un lasciare andare, un cedere rispetto al torto subito, un venire a patti con la ferita intollerabile. Ricominciare non contro il passato ma a partire da una sua accettazione totale, che si traduce a cascata in disponibilità e apertura all’incontro. La propria storia, riscritta, ridiventa pienamente la propria, storture e dolori inclusi.
Sono da escludersi ricadute? Naturalmente no, la traccia è sempre lì a tendere l’imboscata. Ma l’attraversamento autentico, il lungo e faticoso lavoro ne modifica i contorni e con essi la forza dirompente. Che può così essere incanalata altrove in un movimento di espansione piuttosto che di restringimento della vita.