Anoressia e desiderio dell'Altro
In quest'ottica l'anoressia rappresenta rispettivamente un tentativo di sottrarsi all'intrusività dell'Altro o un modo per essere visti da lui, per provocare finalmente un suo movimento desiderante (guarda come sono ridotta, guardami!).
Normalmente il bambino rappresenta per tutte le madri una fonte di soddisfazione. Avere un figlio colma, fa sentire totalmente appagate, sottrae dalla sensazione che qualcosa manchi e diventa la " preoccupazione primaria". Ciò è vitale per la sopravvivenza fisica e psichica del bambino, che viene così inserito nel circuito della vita e del desiderio. Le basi de suo futuro equilibrio sono in questo modo gettate. La "normalità" prevede però che tale sensazione di pienezza senza buchi esperita dalla madre svanisca con la crescita del piccolo, e rimanga al suo posto l'amore per il bambino reale, con il suo carattere e le sue inclinazioni, dunque non più un oggetto meramente appagante ma un individuo dotato di caratteristiche che possono anche non piacere. Al figlio in quanto oggetto ideale si sostituisce la persona reale, con tutto il carico che ciò comporta.
Ora esistono madri che purtroppo, per via di dinamiche precedenti alla nascita del loro piccolo, non riescono ad abbandonare la primissima fase in cui lo collocano nella posizione di oggetto di soddisfacimento del proprio desiderio. Il loro desiderio non viene cioè catturato da altro, non dal partner, non dal lavoro, non da un progetto nè da una passione. Il figlio diventa il focus esclusivo della loro vita, da lui dipende totalmente ogni gratificazione. La donna non esiste più, c'è solo la madre. Così il bambino, intuita la situazione di mancanza nella madre, tende ad offrirsi come ciò che la colma, diventando compiacente, accollandosi il gravoso compito di incarnare ciò che rende felice l'Altro. È ciò che notiamo nella clinica nei termini di comportamenti docili, adeguati, disponibili che caratterizzano l'infanzia di bambine future anoressiche.
Al contrario, all'estremo opposto, vediamo situazioni di rifiuto della maternità. Il figlio viene percepito come un ingombro al raggiungimento delle proprie ambizioni, finendo per essere trascurato, non tanto nelle cure ma nella disponibilità psicologica nei suoi confronti. Gli si danno cose ma non segni che mostrino inequivocabilmente il suo valore agli occhi dell'adulto. Si fa strada nel piccolo l'idea di essere poco amabile, un dubbio sull'amore lo tiene avvinto, nonostante l'abbondanza di beni materiali.
Possiamo osservare anche situazioni miste, madri che cioè ciclicamente alternano un eccesso di presenza soffocante ad un lasciar cadere. Spesso si tratta di soggetti affetti da una qualche forma di bipolarismo, che li porta ad essere mutevoli ed incostanti in tutte le relazioni affettive. Bruscamente un'improvvisa freddezza segue ad un periodo di intensa complicità ai limiti della simbiosi.
Dati questi scenari, quando emerge l'anoressia e perché? Cosa la scatena? Qual è la sua logica?
Spesso non a caso è l'adolescenza il punto di scaturigine dei sintomi. Si tratta infatti del periodo in cui avviene il passaggio dal bambino all'adulto. Chi si è trovato schiacciato tra le "fauci materne" non ce la fa a separarsi in modo equilibrato e dunque il rifiuto del cibo appare come una soluzione, benché patologica, per mettere a distanza l'Altro. Anoressizzandosi una ragazza cerca di non essere più appetibile o al contrario può tentare per questa via di attirare l' attenzione nei casi di trascuratezza. In ogni caso i comportamenti anoressici mostrano un tentativo paradossale di reinstaurare un desiderio più sano e vitale, che non coincida con il bisogno. Non mangiare assume il valore della libertà, della purezza incontaminata, scevra dalle minacce dei bisogni.
Purtroppo queste modalità, essendo patologiche, falliscono nel loro intento, e chi le mette più o meno consapevolmente in atto per cercare di salvarsi finisce per venirne schiacciato. Come diceva suggestivamente Biswanger, un pioniere nella ricerca sui disturbi del comportamento alimentare, l'anoressica è come un alpinista che, essendosi spinto troppo in alto nella sua scalata, si ritrova nell'impossibilità di scendere e di salire ulteriormente. Così resta fermo, ma anche tale posizione è insostenibile e a rischio perenne di improvvisa rottura.