Anoressia e dipendenza
Chi soffre di anoressia tende a dipendere dall'Altro, anche quando assume degli atteggiamenti di distacco o si isola dalle relazioni.
Il suo dipendere infatti non è un semplice bisogno di appoggio e di riconoscimento, non riflette una vulnerabilità transitoria legata ad un momento di crisi. Esso rappresenta piuttosto l'effetto di un rifiuto radicale della separazione dall'Altro.
Non poter fare uno con l'Altro, non potersi fondere con lui, non poter essere garantiti da una sua presenza costante e protettiva sono fatti inaccettabili, intollerabili. Anche in età adulta prevale questa esigenza perentoria di un legame simbiotico, all'insegna della garanzia, della condivisione e del controllo totale.
La posizione di fondo del soggetto anoressico appare pertanto segnata dalla nostalgia di un paradiso perduto e dalla mancata elaborazione della perdita del primo oggetto d'amore totalizzante, la madre. Lo "svezzamento", inteso come tempo mitico in cui ha luogo l'interruzione della fusionalità con la madre, solo apparentemente viene integrato e metabolizzato, continuando invece a esercitare l'influenza di un evento traumatico insuperabile. Ciò spesso a partire da una difficoltà stessa della madre con il suo ruolo e i suoi desideri che ne vanno al di lá. Possiamo avere madri fredde, narcisisticamente prese da se stesse o al contrario madri fagocitanti, tutte identificate nel loro essere dispensatrici di bene.
Non a caso l'anoressia spesso si scatena in concomitanza di una delusione d'amore, di una separazione che si rinnova e che riecheggia l'antica ferita, l'antico strappo mai davvero simbolizzato. Visti da vicino i legami d'amore che si lacerano scoperchiando il vuoto che occludono, hanno il sapore di sostituti del rapporto con l'oggetto materno, essendo per lo più improntati all'accudimento, al sostegno, alla gestione dei bisogni più che dei desideri.
Che cosa rappresenta l'anoressia? Cosa vuol dire? Essa di fatto indica una spinta regressiva verso una rifusione con la totalità perduta. Facendosi magra e fragile nel reale l'anoressica si mette nella posizione della bimba da accudire, di quella che senza il supporto sollecito dell'Altro non ce la fa. Nella clinica vediamo bene come a seguito dell'emergenza della malattia la madre si senta chiamata ad occuparsi della figlia con la sollecitudine che si riserva ai neonati, fragili, indifesi, a rischio di morte.
Va da sè che questo disturbo non si possa leggere semplicemente come appello all' Altro, come domanda di essere viste e riconosciute. Certo, tale versante è indubbio. Ma se si trattasse solio di questo, di testare l'amore dell'Altro, la sua risposta angosciata basterebbe per placarne la virulenza. Invece il discorso è più profondo. In gioco c'è la possibilità di venire a patti con la separatezza che connota tutte le relazioni umane, con la solitudine esistenziale che ci riguarda tutti.
Un orizzonte della terapia sarà allora quello della ricerca di modalità ( sempre personali e originali per ciascuno) di supplire all'assenza di garanzie date dalla presenza reale dell'Altro. Un imparare a saperci fare con il vuoto a partire dal transfert con il terapeuta, figura che introduce al gioco dell'alternanza di presenza - assenza. Nello spazio sospeso fra una seduta e l'altra si congiungono libertà e legame, sperimentazione solitaria e costanza oggettuale.