Mangiare niente per Essere
Tale eccesso di ideale ha luogo quando le madri incaricano le loro figlie di riempire alcune loro mancanze. Spesso si tratta di donne che hanno rinunciato alla loro femminilità, che hanno chiuso con il desiderio, diventando così solo madri. La psicoanalisi ci insegna quanto la donna sia un'altra cosa rispetto alla madre, e quanto una sua abolizione sia potenzialmente pericolosa ai fini di un rapporto equilibrato con la maternità. La madre tutta madre cercherà appagamento nei figli, confondendosi con loro piuttosto che accoglierli nella loro diversità radicale. Ecco che le figlie femmine rischiano di pagare le spese della rinuncia materna alla femminilità, nella misura in cui o non si vedranno riconosciute e valorizzate per i loro aspetti più squisitamente femminili oppure verranno eccessivamente vezzeggiate, come bambole, proiezioni dell'immaginario materno.
L'anoressia in questa logica irrompe allora sintomaticamente come un disperato tentativo di affermazione di sè e di ripristino di un'immagine propria e desiderabile. Non a caso i primi esordi si manifestano in età adolescenziale, nel momento in cui la bambina compiacente è chiamata dalla maturazione intellettiva e sessuale a staccarsi dalla famiglia e a muovere i primi passi nel mondo come soggetto autonomo.
Da una parte il fenomeno anoressico introduce con il rifiuto del cibo, con il no!, una distanza rispetto all'invadenza materna. È la ribellione, la rivendicazione di un Essere che si vuole liberare dalle catene della domanda dell'Altro. Dall'altra la ricerca di un corpo magro, asciutto, sgrassato riflette il tentativo di impossessarsi di un'immagine ritenuta socialmente desiderabile. L'insicurezza di fondo relativa al proprio valore porta ad investire l'immagine come elemento in grado di rinforzare un narcisismo ferito. E quale immagine, se non quella di un corpo magro, può avere presa sulle giovani donne in un contesto come quello contemporaneo?
Se dunque l'intenzione inconscia di partenza manifesta un tentativo di svincolarsi dall'Altro, il risultato finale porta ad un adeguamento conformistico ai sembianti sociali. La soggettività viene così nuovamente occultata dalla maschera del corpo anoressico, in una serialità che annulla drammaticamente il tratto singolare. Il no! si cristallizza nell'esercizio di una volontà che ora è il soggetto stesso ad esercitare in maniera autoritaria nei propri confronti, negando in tal modo ogni pulsionalità. In un circolo vizioso che denuncia un'impossibilità di realizzare la separazione agognata attraverso questa via. La legge si separa rigidamente dal godimento, piuttosto che congiungervisi tramite il medium del desiderio.
L'anoressia si rivela allora come un tentativo fallito di emancipazione. Come tutti i sintomi grida la verità, denuncia un malessere, dà voce ad un disagio ma nello stesso tempo mette in scacco la vita, la invalida, la amputa di ogni gioia. È una vera e propria trappola mortale.
Scardinarne il meccanismo non è dunque semplice, sicuramente impossibile se non avvengono due passaggi fondamentali. In primis chi chiede aiuto deve essere spinto da una vera volontà di guarire. Spesso molte ragazze arrivano in consultazione perché spaventate dalla perdita di controllo introdotta dal riemergere della fame e della pulsione. Ci chiedono di fatto, pur in maniera angosciata, come fare a restare anoressiche. In seconda battuta di cruciale importanza è lo spostamento del discorso dal tema del cibo a quello delle relazioni familiari. Deve essere chiaro che una psicoterapia non si cura dell'alimentazione, bensì del rapporto che ciascuno di noi intrattiene con la legge, il godimento e il desiderio.