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Quando il culto della salute diventa malattia

Nella società ipermoderna i disturbi della condotta alimentare non riguardano più semplicemente l’alterazione della quantità dei cibi che vengono introdotti nel corpo, così come non si limitano alla ricerca dell’immagine del corpo puramente magro. La categoria di quantità domina sostanzialmente nei quadri “tradizionali” di anoressia-bulimia, in cui poco o tanto cibo si collegano direttamente con corpo grasso o magro.

I termini oggi molto in voga di “ortoressia” (ossessione per il mangiare sano) e “vigoressia” (ossessione per l’immagine di un corpo scolpito in un certo modo) testimoniano di una complessificazione ulteriore del sintomo anoressico-bulimico. In gioco non abbiamo unicamente la quantità ma anche la qualità: il cibo deve essere non solo poco ma anche “sano”, il corpo non basta che sia magro, deve pure apparire muscolarmente scolpito secondo canoni estetici ben precisi.

L’omologazione imposta dalle mode si associa al culto collettivo del “fitness” , del benessere, dell’attenzione maniacale per la salute e la forma fisica. Se certamente non sono nè la moda nè il fitness la causa dei disturbi alimentari veri e propri, è innegabile che la pressione sociale verso il possesso di un certo tipo di immagine impatti con effetti devastanti su personalità fragili, alla ricerca di un’identità stabile di cui non sono solidamente provviste.

Immagine e identità infatti sono strettamente connesse. Ciascun essere umano, nei primi anni di vita, è esposto senza protezioni ad un caos di sensazioni e impulsi inarticolati. Il loro maneggiamento, la possibilità di ordinarli e farli confluire in una buona forma derivano dall’intervento dell’Altro.

La prima forma identitaria, che si raffinerà più avanti negli anni, si delinea dunque in età infantile, grazie all’azione di contenimento da parte dell’adulto nei confronti delle pulsioni che si agitano nella prima vita emozionale. Il senso dei confini corporei, la percezione della propria amabilità, la sicurezza nella continuità della vita sono il frutto di uno sguardo materno che riconosce e accoglie con gioia la particolarità del piccolo, senza soffocarla o lasciarla ricadere nel caos e nel vuoto.

Il volto, gli atteggiamenti e le parole della madre costituiscono dunque il primo specchio in cui viene reperita l’immagine di se stessi in quanto esseri degni d’amore.

Ma cosa succede se questa funzione di specchio viene meno? Cosa accade se, per diverse ragioni, l’infanzia viene segnata dall’incontro con un Altro traumatico, instabile, non in grado di sostenere la soggettività nascente del bambino?

La formazione dell’immagine di sé ne rimarrà fortemente condizionata. Nelle situazioni più complesse (all’interno delle quali si possono isolare diversi livelli di profondità e gravità) essa potrà risultare frammentata, risospinta cioè verso quel magma informe che è la vita psichica dei primissimi anni di vita. Avremo allora identità inconsistenti, fragili, personalità “senza pelle”. Oppure al contrario potrà verificarsi un irrigidimento identitario, che rifiuta qualsiasi ambivalenza e contraddizione per evitare l’incontro con una caoticità di fondo ingovernabile.

Entrambe le situazioni espongono (soprattutto nel periodo adolescenziale in cui appare in primo piano l’esigenza di “divenire se stessi”) allo sviluppo di sintomi alimentari.

Tramite il controllo del peso e delle calorie si cerca di definirsi ad un altro livello, di appropriarsi cioè finalmente di quel volto che sembra sfuggire. Il soggetto, continuamente sospeso alla mancata risposta dell’Altro, diventa dipendente da un’immagine considerata socialmente desiderabile. Mancando del senso di una propria desiderabilità la cerca nel sociale, rimanendo intrappolato tuttavia nella morsa mortale di un meccanismo che gli sfugge di mano.

La percezione di non avere una forma adeguata e definita non si placa una volta raggiunto un peso o un’immagine ideali: la magrezza non è mai abbastanza, c’è sempre troppa carne, troppa pulsione. Nei casi più gravi solo poter vedere e toccare le ossa può offrire una qualche tranquillità.

In questo scenario il controllo ossessivo delle calorie, la ricerca del corpo magro come status symbol da sfoggiare allo sguardo di un Altro anonimo e impersonale, sono oggi complicate dall’avanzata del salutismo, che vuole che quel corpo sia non solo magro ma anche in salute, in forma, prestante e scattante.

Come conciliare restrizione calorica ed energia necessaria alla salute? Il paradosso è evidente, ed ecco proliferare regimi alimentari miracolosi, dalle mille virtù terapeutiche, a cui viene attribuito il compito di sanare la contraddizione.

La rincorsa dell’eterna giovinezza abbruttisce e schiavizza, veicolando un messaggio sbagliatissimo: con la volontà e gli strumenti giusti si può combattere il tempo, si può essere forti, belli e invincibili. Nulla di più falso e di più contraddetto dall’esperienza. Proprio perché la sconfitta é sicura, tale meccanismo incentiva lo sviluppo di ossessioni, ovvero la continua, sfinente rincorsa della perfezione o dell’oggetto feticcio in grado di assicurarla una volta per tutte.

Viene in tal modo negato il principio alla base di ogni equilibrio psichico, ossia l’accettazione e la valorizzazione di sè, della propria particolarità imperfetta, della lesione inaggirabile che attraversa la vita ma da cui nasce pure ogni possibilità di vita autentica.

Allora la terapia, per molte situazioni segnate dalla carenza o da un’impasse del primo riconoscimento materno, si giocherà proprio sul piano del contenimento mancato. Sarà il terapeuta a fare da specchio, a favorire la trasformazione del caos emozionale in pensiero, per poi avviare quel processo di riscoperta e valorizzazione di sè in grado di opporre una minima resistenza alla pressione omologante e di temperare la violenza del sintomo alimentare.

Disagio contemporaneo

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