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Anoressia - bulimia: il vuoto e il pieno

Ma qual è la relazione fra questo fatto e la ricerca del vuoto tipica di chi soffre di un disturbo alimentare?

Possiamo vedere in atto due aspetti, solo apparentemente contraddittori.

Da una parte fare il vuoto dentro di sé, affamarsi, vomitare, staccarsi dalla dipendenza del bisogno del cibo sono dei tentativi di raggiungere un ideale di controllo impossibile per l’essere umano, fragile e agitato da mille passioni. Un tentativo di rendersi indipendente rispetto alle delusioni, uno scudo di fronte alla sofferenza. Un’anestesia. Un chiudere con l’amore e i suoi rischi, un dire basta. Il cibo è l’equivalente della pulsione, del godimento, dell'amore, di ciò che travolge e sfugge alla volontà.

Nello stesso tempo però la spinta verso il vuoto testimonia pure di una domanda disperata di amore e di riconoscimento. L’anoressica, ma anche la bulimica che con il vomito mostra di non essere stata davvero placata dall’oggetto, vuole dimostrare come il fondo dell’essere umano sia fatto di mancanza, non di pienezza. Ognuno di noi è attraversato da desideri insoddisfatti o impossibili, anche se magari abbiamo tutto sul piano materiale. E questi desideri hanno sempre a che vedere con l’essere riconosciuti dall’Altro. Ci rendono insufficienti, mancanti, in un certo senso vuoti. Facendo il vuoto nel suo corpo è come se l’anoressica volesse denunciare la natura desiderante dell’essere umano, il suo bisogno di essere visto, amato per quello che è. Dunque l’anoressia da questa prospettiva appare un grido, un appello disperato perché qualcuno finalmente sia capace di un amore senza domande e senza condizioni.

A tal proposito è molto calzante una frase dello psicoanalista Alfredo Zenoni: “voglio essere amato per me stesso. Il per me stesso infondo è essere amato per nessuna delle qualità che mi definiscono”. C’è qualcosa in noi che reclama la convalida dell’amore dell’Altro ma non a partire dalle nostre qualità, dal fatto che siamo belli o intelligenti. Vogliamo essere amati per la mancanza che al fondo siamo, per la nostra particolarità irriducibile all’avere, al possesso di beni o attributi fisici o morali. Scomparendo letteralmente, facendosi eterea, incorporea l’anoressica prova a materializzare sul piano della realtà il vuoto che al fondo siamo.

Cogliere questa logica ha delle ricadute importanti non solo sul versante della comprensione del fenomeno anoressico bulimico ma anche su quello della cura. Una cura che non andrà a riempire con parole, spiegazioni, domande. Ma che sarà piuttosto orientata all’ascolto della parola di chi soffre.

L'uso del linguaggio appare l’unica via per uscire dall’equivalenza mortifera vuoto= corpo scarnificato. Attraverso una parola piena si può ricollocare il vuoto al suo posto, sul piano dell’essere e non su quello fisico della carne.

 

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