Pandemia: la strana calma nel dramma
Anziché avvilirsi per ciò che la pandemia ha sottratto, anziché attendere con trepidazione il ritorno alla “normalità” di prima, costoro avvertono con stupore una sorta di leggerezza, una particolare tranquillità, una pace difficile da definire.
Come va interpretata una reazione simile? Incoscienza di fronte ad un dramma di proporzioni ancora largamente ignote? Perdita del senso di realtà? Rivelazione della profonda insoddisfazione connessa alla vita pre virus? Oppure qualcos’altro ancora?
Fuori dal mondo
Sicuramente in molti casi si tratta per lo più di un adagiarsi nel tran tran casalingo, una specie di oblio individualista che si traduce in distacco dal mondo e in cura del proprio orticello.
Per alcuni la condizione attuale diventa banalmente l’occasione di avere del tempo in più per le proprie cose e per i piaceri domestici, oppure semplicemente per poltrire e procrastinare a data da destinarsi responsabilità e impegni. Il dramma riguarderà pure gli altri, io intanto sto qui e me la godo come posso.
Non mancano nemmeno le situazioni in cui lo stare a casa forzatamente permette di staccare da dinamiche lavorative o sociali avvilenti, consegnando ad una serenità “artificiale” perché basata sulla fuga e la presa di distanza.
Quando tale sollievo viene riconosciuto ed analizzato nella sua causalità può spingere ad una valutazione più lucida della propria esistenza e a prese di consapevolezza che implicano anche sentimenti dolorosi.
Altrimenti il rischio è quello che il senso di ristoro e di liberazione sia qualcosa di estemporaneo e transitorio, in un orizzonte in cui di fatto nulla cambierà, in una ciclicità di lamento, fuga e ritorno.
Dentro fino al collo
Ma la peculiare quiete descritta da tanti non si esaurisce pienamente in queste casistiche, si può confondere con sentimenti più ovvi e banali e sovrapporsi ad essi, pur restando qualcosa che va oltre.
Essa non sembra poggiare sulla rimozione della minaccia, sul far finta che non esista, ma basarsi al contrario sulla “convivenza” con essa. Oggi si parla tanto di “convivere” con il virus in termini pratici, ci si riferisce al ritorno alle varie attività, ma non si fa cenno a cosa significhi tale coabitazione sul piano psichico.
Ecco, questa specifica, assurda pace l’essere umano può incontrarla proprio quando gli vengono tolte tutte le certezze, come sta facendo il virus. Quando tutto è perduto, quando il susseguirsi delle emozioni di paura, rifiuto e attivismo afinalistico si estinguono è lì che inizia la vera convivenza, quando non c’è più nulla da fare se non “stare”.
Allora la resa si profila come il punto di scaturigine dell’enigmatica calma che ci sta interrogando. Questa resa non è da intendersi come arrendevolezza, come lasciarsi andare passivamente alla dominazione del nemico.
Essa è piuttosto coscienza di un’impotenza su un certo fronte, ma non certo su tutti. Non per nulla la ricerca di soluzioni e di adattamenti sempre migliori va avanti. Ma la premessa da cui parte ogni resistenza è l’accettazione che il danno è accaduto, che ci siamo dentro e che non possiamo far altro che affrontarne coraggiosamente tutte le conseguenze.
La calma descritta non è un Nirvana, uno scudo, un ottundimento delle emozioni. Essa assume piuttosto le caratteristiche di un risveglio, in cui tutte le percezioni sono acuite. La bellezza, i sentimenti, i colori, tutto diventa più nitido perché cessa di venir dato per scontato, qualcosa del mistero in cui siamo immersi sembra disvelarsi ai nostri sensi più che alla ragione.
Spogliati del “peso” del confort, delle certezze, dei binari già tracciati ci troviamo paradossalmente più liberi, più a contatto con le verità che l’abitudine tende a cancellare insieme alle nostre emozioni anestetizzate.
Salvezza
Il vuoto si rivela più pieno del pieno, e ci viene da chiederci se il dramma sia davvero l’unica forma di accesso possibile ad una pienezza simile. Forse l’amore è l’altra grande potenza che, scompaginando gli ordini prestabiliti, rinnova la vita e la salva nella sua dimensione autenticamente vibrante.
È evidente come sia dunque la conservazione a tutti i costi della “nuda vita” a far ammalare la vita stessa. L’eccesso di tutela, di garanzia, la prudenza che si trasforma in ossessione ingabbiano il sentimento vitale e lo fiaccano. Eppure non possiamo nemmeno dimenticarci di avere un corpo vivente e il valore della difesa della sua integrità. Come si fa a tenere insieme le due cose?
La conciliazione fra l’esigenza di salvare la vita biologica parallelamente a quella dell’anima pare esser data proprio dall’amore.
L’individuo, lottando, esponendosi, prodigandosi per l’altro, dimentica di tutelare se stesso salvandosi anche quando nel sacrifico estremo perde la vita. Perché perdendo la propria vita salva l’umanità dell’uomo.