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La psicologia dell’emergenza

L’emergenza, in questo delicato periodo storico, può costituire ancora di più la porta di ingresso ad un trattamento psicoterapeutico.

Ma esiste uno specifico della “psicologia dell’emergenza” che ne fa qualcosa di diverso rispetto ad un percorso classico? Oppure possiamo considerare l’impatto della morte e della malattia come una delle svariate possibilità di approdare ad un’indagine conoscitiva di se stessi che può farsi nel tempo via via sempre più profonda?

Di fatto entrambe le visioni sono corrette. L’urgenza rappresenta una fase a se stante e può restare tale fino ad un esaurimento della necessità di aiuto. Ma può anche più o meno rapidamente innescare riflessioni e prese d’atto che vanno oltre gli eventi drammatici.

In questo secondo caso il lavoro si complessifica e bisogna che chi tocca certe verità  sia anche disposto a volerle guardare, abbia cioè la forza e la disposizione d’animo per coinvolgersi in un discorso più ampio. 

L’urgenza

Chi subisce un lutto o viene esposto alla malattia entra in contatto con una dimensione dell’esistenza che normalmente resta celata. L’immagine con cui rivestiamo il nostro corpo e l’ambiente circostante improvvisamente si strappa ed emerge la brutalità della sofferenza, che cancella ogni bellezza consolatoria.

Inoltre anche le stesse abitudini, le scansioni temporali, gli interessi che costituiscono gran parte del vissuto personale usuale perdono di significato, implodono, inghiottiti da una voragine che cancella tutto.

La morte, reale, definitiva, o il suo simulacro presentito nella malattia, sconvolgono l’ordine della ripetizione automatica e  incosciente e gettano nell’angoscia, nella paralisi, nel silenzio assordante. Chi è travolto dall’onda fatica persino a chiedere aiuto, perché domandare significa già vita, vibrazione, movimento verso l’altro.

Quando costui riesce a farlo la sua parola è stentata, come spenta, oppure si fa torrenziale disperdendosi in uno sfogo che rischia di fomentare anziché di liberare il dolore. Chi parla infatti si confronta con l’inadeguatezza dell’interlocutore, verso il quale rivolge inconsapevolmente la domanda impossibile di cancellare il trauma o di conferirvi un senso.

Il terapeuta se non si muove bene e compie (sulla scia di un’angoscia speculare)  il fatale errore di voler “consolare” rischia di diventare il bersaglio di un’aggressività ancor più furiosa, comprensibile alla luce di una rabbia che non trova  nella realtà un oggetto contro cui scagliarsi. Di chi è la colpa alla base di tanta sofferenza? Di Dio? Della Natura? Degli uomini? Di nessuno e quindi del caso?

Ascoltare il patimento di chi è traumatizzato implica l’aver non solo già attraversato qualcosa di simile, ma anche esserne sopravvissuti.  Solo così si può  “stare” saldamente nella mischia insieme al paziente, senza confondimenti di ruoli e posizioni, senza tentativi di fuga o di ridimensionamento della sofferenza.

Il silenzio attonito o l’urlo disperato, il linguaggio spezzettato o il pianto irrefrenabile trovano un luogo, un contenitore dove possono esistere e basta. Nessuna interpretazione, nessuno stimolo, nessuna razionalizzazione: un ascolto rispettoso è tutto quello che serve.

Allora, dopo che lo sconvolgimento comincia ad esistere anche fuori dalla mente di chi ne è colpito e dunque ad avere dei contorni che lo circoscrivono, esso può iniziare a venir pensato, maneggiato, reinserito cioè in un ordine umano e parzialmente elaborabile. Il superamento di certi eventi dolorosi non è mai integrale, resta sempre un resto con il quale si è chiamati a convivere per tutta la vita. Ma dopo aver tirato fuori, pianto, ricordato, detto e ridetto si può via via assorbire il colpo e infine, in parte, dimenticare.

Una psicoterapia può concludersi qui, con il sollievo, con un qualche equilibrio ripristinato, con qualche conoscenza e strumento in più per convivere con il lato oscuro della vita, integrandolo nel tessuto della propria esistenza. 

Il tempo dei perché

Ma il lutto, la malattia, l’angoscia se da un lato ci fanno conoscere l’insensatezza con la quale dovremo fare i conti, dall’altro possono trasformarsi essi stessi in strumenti conoscitivi supplementari di noi stessi.

Questo passaggio non è per tutti, non è obbligatorio e non è detto che se non si compie in un dato  momento non si compierà mai. A qualcuno succede. E può allora spalancare porte restate chiuse per anni, evocare ricordi antichissimi, iniziare ad una rilettura della propria vita totalmente nuova e spiazzante.

Il dolore, anche quello traumatico, ha un potenziale rigenerativo enorme. Trasforma e non solo in un senso negativo. Mina, mette alla prova, ma se non distrugge, se non disintegra può addirittura segnare l’inizio di una rinascita, di una vita nuova.

Ciascuno di noi tende a non vedere tutta la gamma possibile dei colori esistenti, privilegiando certe tinte, certe sfumature rispetto ad altre. E questo perché l’educazione, le esperienze in famiglia, le ferite, i complessi strutturano la psiche di ognuno in maniera singolarmente condizionante. Ciascuno cioè  si porta appresso nel proprio cammino una serie di bende e di zavorre.

Il trauma, scompaginando le carte, ha il potere di far vacillare certezze ed acquisizioni, liberando un’energia fortissima in grado di far vedere fin nell’oscurità di sé stessi e di far emergere reperti sotterrati dal tempo.

Quei reperti possono rivelarsi i mattoni su cui ricostruire, dai cui ripartire, nell’orizzonte di una mutazione post bellica che deve la sua efficacia al recupero delle macerie (e non all’eliminazione di esse) in favore di un nuovo inizio saldamente intrecciato al passato.

Disagio contemporaneo

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