Social network tra rischi e opportunità
I social network sono nati, almeno apparentemente, con uno scopo virtuoso: mettere in connessione sconosciuti che altrimenti non avrebbero nessun’altra opportunità di conoscersi, permettendo scambi di informazioni ed idee in tempo reale.
Un’opportunità incredibile, che, se ben gestita da personalità mature e strutturate, può allargare orizzonti, consentire esperienze conoscitive interessanti e diffondere cultura.
Il predominio dell’immagine
Tuttavia l’accesso di massa a tali sistemi ha imposto una loro modalità di utilizzo che sembra ormai totalmente smarcata da quello che pareva l’obiettivo originario. La condivisione di materiale prettamente visivo ha superato di gran lunga quella dei contenuti, decretando un impoverimento ed un appiattimento dello scambio sul solo registro dell’immagine.
I meccanismi che governano la società consumistica in cui viviamo, che fanno leva sulla fragilità narcisistica delle persone per vendere prodotti-protesi di identità traballanti, hanno finito per monopolizzare l’uso dei social in senso esibizionistico, asservendoli alla logica dell’apparire.
Nei giovanissimi il fenomeno sta raggiungendo proporzioni eclatanti, ma anche i più âgée non ne sono affatto immuni. Ormai non esistono più vacanze, uscite con gli amici, perfino giornate del tutto ordinarie che non siano documentate con dovizia di particolari tramite foto e relativi commenti, che a loro volta stimolano risposte dello stesso tenore da parte dei follower.
E più seguaci delle proprie vite virtuali in diretta si possono vantare più si è stimati e considerati nel gruppo, spesso e volentieri reso esso stesso inconsistente proprio dall’ingerenza del social nella sua dinamica reale. I ragazzini più popolari in rete vengono infatti addirittura apostrofati dai compagni con i nomi dei loro account social, in una confusione di piani e di identità che va a perturbare i rapporti che si giocano tra di loro nella realtà.
I rischi dell’apparire
Quali rischi si nascondono in questa spinta compulsiva all’apparire? Sicuramente la prima conseguenza negativa che balza all’occhio è la dipendenza. Il cellulare e le sue immagini diventano indispensabili per garantire un senso di adeguatezza personale, al punto tale da invadere tutti i tempi e gli spazi di una giornata, dallo studio, al lavoro, alle relazioni. Ciò a spese della qualità dell’attenzione dedicata al mondo vero, in un ripiegamento che anziché includere esclude ed aliena sempre di più.
Ne deriva un paradosso clamoroso: per inserirsi, per sentire di avere un posto, un ruolo, un’identità adeguata e “vincente” le persone si mettono in vetrina, senza rendersi conto della prigione che essa è. Quel vetro, sottovalutato semplicemente perché trasparente, in realtà si rivela opaco, un muro invalicabile, che inchioda nella schiavitù del dover dimostrare qualcosa e per giunta ad uno spettatore anonimo. Il rapporto con l’altro è così mancato, tutta la dinamica diventa un riferirsi sterilmente a se stessi, ad un interlocutore che non è altro che una proiezione di sé.
Il rischio vero, soprattutto per le nuove generazioni che con i social ci crescono, è il dilagare di una patologia narcisistica della personalità, intrappolata dentro al rapporto con lo specchio, dentro cioè ad un falso dialogo che ha sempre e comunque il proprio sé come controparte.
I follower sono una massa anonima di cui importano il numero (l’estensione più che la composizione) e il consenso. Cruciale è poter contare su un poderoso faro rivolto verso il proprio ego, in realtà riflesso, prolungamento di un sistema di pensiero autoreferenziale.
Per questo le critiche non vengono valutate per i contenuti ma in base alla quantità: se esse colgono nel segno ma sono trascurabili numericamente, vengono inghiottite nella massa dei like. Se viceversa crescono a dismisura gettano nuovamente nel baratro della caduta narcisistica, ovvero in quella fragilità di partenza che si cercava di rammendare.
Accanto alla patologia narcisistica, sul piano più sociale osserviamo una regressione culturale e il prendere piede di atteggiamenti sempre più acefali e totalitari. Ogni volta che il rapporto con lo specchio soppianta quello con la parola, ci troviamo di fronte ad un impoverimento delle potenzialità dell’umano ed un imbarbarimento a tutti i livelli.
Il linguaggio e l’esercizio del pensiero ci elevano rispetto alle passioni. Le fragilità, più che trattate tramite la ricerca di consensi in un mondo che non esiste, possono essere affrontate con strumenti più sofisticati, che sono poi quelli che ci rendono davvero umani.
I genitori, gli educatori, gli insegnanti dovrebbero quindi prendere coscienza in primis dell’uso che essi stessi fanno dei social, prima di limitarne l’accesso dei più piccoli tramite un puro esercizio d’autorità. I veri insegnamenti passano attraverso l’esempio. Se non siamo noi adulti a cambiare il nostro approccio, a moderare e incanalare costruttivamente il ricorso a questi strumenti come possono farlo di loro iniziativa i nostri giovani? Come possiamo pretendere di venir ascoltati?
Smarcarci dalla cultura dell’esibizione, metterla in discussione, farsi due domande prima di pubblicare a raffica foto di bambini agghindati (purtroppo sempre più al centro delle fotocamere dei cellulari dei genitori) sono già passi importanti per la limitazione di un’onda i cui effetti nefasti li patiremo tutti in futuro