Quando la rabbia è una cattiva abitudine
La rabbia, contenuta entro certi limiti e incanalata, diretta verso la realizzazione di qualcosa, può essere un buon alleato per la salute psichica. Essa infatti ha la funzione di segnalare internamente la frustrazione connessa a certe situazioni o relazioni, spingendo pertanto a non subire passivamente gli eventi e a mettere in atto reazioni anziché implosioni.
La rabbia virtuosa
Le reazioni virtuose e non distruttive innescate dalla rabbia sono dell’ordine dell’impegno e della disciplina, che si traducono in grinta e tenacia, in atteggiamenti cioè non rassegnati ma decisi verso obiettivi di sviluppo e di espressione di sé non ai danni di qualcuno o di qualcosa.
La fierezza di questo genere tiene sempre conto dell’altro e del valore del rispetto, proprio e altrui. Implica inoltre la fatica e un rapporto con il limite equilibrato, che, pur nell’orizzonte del suo rispetto, al tempo stesso ne cerca le crepe, le fessure, gli aspetti aggirabili e forzabili per andare oltre ciò che può essere cambiato.
Allora la rabbia si traduce in forza, in energia, in spinta propulsiva verso il cambiamento.
La rabbia distruttiva
Purtroppo però il volto oggigiorno più conosciuto della rabbia è la reazione scomposta e distruttiva, frequentemente rancorosa e irrispettosa nei confronti dell’altro. Una sorta di scarica esplosiva priva di ogni finalità se non di quella di ristabilire un fittizio senso di padronanza susseguente ad una frustrazione.
Tuttavia l’effetto analgesico e ansiolitico di questo genere è, seppur lì per lì gratificante, molto volatile, destinato a durare poco e a consegnare a sensazioni di vuoto e di colpa. Un po’ come per le droghe: l’euforia lascia ben presto posto alla depressione, allargando, anziché suturando, le sottostanti ferite dell’animo.
La rabbia distruttiva provoca dunque piacere e la sua attivazione coincide con quella delle aree cerebrali e della chimica legata alla così detta “ricompensa” (dopamina, adrenalina ecc…). Meccanismi accertati in tutte le dipendenze, che, accanto alla dimensione psicologica, vedono protagonista la biologia e le sue soverchianti leggi.
La schiavitù del piacere
Il dipendente è allora uno schiavo dei suoi circuiti fisici. Ma lo è perché è troppo debole sul piano mentale per elevarsi al di sopra della chimica che universalmente tiranneggia l’essere umano, oppure perché la sua vulnerabilità in primis è di natura fisica?
La società in cui viviamo tende a spiegare tutto ricorrendo al concetto di malattia, che dunque deresponsabilizza riportando la causa di certi atteggiamenti patologici a un presunto “difetto di fabbrica”.
Se senz’altro ci sono problematiche (come le dipendenze e la rabbia patologica) che hanno alla loro base una forte componente di predisposizione genetica, è vero però che una visione del genere perde completamente di vista il valore correttivo e trasformativo dell’apprendimento e dell’esperienza, basato su una certa indipendenza del mentale dalle sue catene fisiche-biologiche.
Ai nostri giorni questo spessore psichico e mentale, si sta lentamente assottigliando anche nelle persone colte e intelligenti, perché non più culturalmente sollecitato.
“Tutto e subito”, lo slogan incalzante dei nostri tempi, impedisce lo sviluppo della tolleranza delle frustrazioni, consegnando alla fragilità della dipendenza, alla rincorsa del piacere come il valore massimo che dà senso alla vita.
Mentre la coscienza intesa nel suo senso più ampio, la consapevolezza, la visione di sé stessi e delle cose dall’alto (per certi versi spersonalizzante ma salvifica), la capacità di pensare, di elaborare, di attendere la visione lucida anziché di precipitarsi in un “lo so già” aprioristico sono tutte facoltà in via di estinzione.
Impasse terapeutica
La psicoterapia stessa finisce per venir invasa da queste scariche rabbiose di adrenalina, difficilmente trasformabili in elementi pensabili. Sempre più spesso i percorsi si impantanano, al di là delle diagnosi strutturali, per via della convulsa ricerca del piacere, che acceca e riduce tutto all’iper concretezza del presente, del qui ed ora, senza il minimo investimento in un lavoro di costruzione che darà i suoi frutti in futuro.
Si domanda come poter agguantare il godimento anelato, come poter cambiare l’altro, non come poter lavorare su se stessi. “Io sono così” è l’assunto granitico non dialettizabile di molte partenze.
Inoltre la dimensione temporale bloccata, schiacciata sull’oggi vagheggia sì un domani, che però resta una chimera irraggiungibile, perdendo i collegamenti con gli atti del presente.
Così che soprattutto i nostri giovani si trovano persi in un’erranza cieca, inconcludente e rabbiosa, perennemente alla ricerca di una chiave risolutiva nell’altro anziché in se stessi, convinti che le relazioni siano luoghi di salvezza assoluta e pertanto perennemente delusi e in fuga da rapporti collezionati come figurine di album fotografici.
Solo quando la coscienza (intesa come occhio interiore che vigila, osserva e coglie i punti critici di sè con il desiderio di evolvere ) si risveglia l’atto terapeutico può avere una qualche incidenza.
Altrimenti tutto il lavoro si riduce a suggerimenti di buon senso riguardo situazioni banali e quotidiane, volatili come gli intenti di chiede aiuto.