Le virtù della mitezza
Dolcezza e animo mite vengono spesso considerate doti negative nella società competitiva in cui viviamo (anche se in questa crisi attuale e generalizzata cominciamo ad avvertire timidi segnali della possibilità che qualcosa possa muoversi in una direzione nuova, una sorta di rinascimento dopo anni oscuri di falsi miti ormai giunti al capolinea).
Ancora oggi, in molti ambienti lavorativi e sociali, predomina un modello relazionale improntato all’aggressività e alla prevaricazione, che nulla ha a che vedere con la sana competizione, la grinta o la forza delle idee.
L’egemonia dell’immagine
L’egemonia dell’immagine (narcisismo) rispetto al pensiero si accompagna sempre all’aggressività; questo perché nell’esibizione è insito il tentativo di sopraffare l’altro, sovrastarlo attraverso una supposta superiorità data dalla presenza fisica. L’atteggiamento rivaleggiante che si gioca su questo registro è del tipo “o io o tu”, e suppone che l’altro in quanto tale con la sua esistenza rappresenti una minaccia, un pericolo.
Mentre sul piano del pensiero, dunque ad un livello meno primitivo rispetto all’immagine, l’altro è evidentemente una ricchezza, le sue peculiari caratteristiche possono apportare un valore aggiunto, compensare e bilanciare i limiti caratteriali dei singoli.
La cooperazione in una società civile supera la sopraffazione proprio perché l’obiettivo non è la vittoria dell’individuo o di una cerchia ristretta ma l’evoluzione ed il benessere dell’umanità in quanto pluralità. La forza individuale è messa al servizio della collettività e la competizione, umanissima, ha come orizzonte ultimo il dare il meglio di sé.
Purtroppo nei gruppi umani in cui spadroneggia la superficialità dell’apparire le persone vengono velocemente etichettate in base a come “sembrano” , dunque a come si vestono, a come parlano e si muovono. E più nell’atteggiamento esteriore si discostano da un certo modello considerato “vincente” più vengono emarginate. La conseguenza principale in ambienti che funzionano così è la ben nota massificazione e autoreferenzialità, con tutti gli effetti correlati di impoverimento in termini di creatività e propulsione vitale.
Dalla omologazione non può infatti nascere nulla di veramente innovativo; le persone hanno paura ad esporsi davvero, finiscono per attenersi al copione affidato e non evolvono, non maturano nessuno stile proprio, restando bloccate in un’adesione conformistica che apparentemente ripara, offre un ancoraggio ma nei fatti svuota e insterilisce.
La miopia della scaltrezza
Alla luce di ciò appare chiaro come mitezza o dolcezza non vadano assolutamente confusi con debolezza o scarsa intelligenza. Si dice che lo “scaltro” sia colui che sa stare al mondo, ma ciò non è affatto vero. Egli è qualcuno che si limita a sfruttare a proprio vantaggio le dinamiche malate del contesto in cui vive ed opera, che gli consentono di “maneggiare” le cose in maniera tale da ottenere più ricchezza o visibilità.
Di solito profili così hanno vita breve, la loro condizione è estremamente instabile perché non si basa su capacità solide ma su escamotage e trucchi dipendenti da qualche falla del sistema. Possono andare avanti anni nei loro giochetti ma poi inesorabilmente tramontano, inghiottiti dallo stesso sistema malato che li alimentava.
Inseguire il valore della furbizia è quindi non solo miope, ma anche assolutamente fallimentare per lo sviluppo di una personalità equilibrata, autonoma e solidamente ancorata alla realtà. L’intuizione, facoltà molto importante per vivere bene, non andrebbe mai confusa con la semplice furbizia. La prima vede lontano, la seconda invece spesso porta i paraocchi, scambia la piccola convenienza o il grandeur del momento per svolte decisive della vita, fallendo la visione complessiva del tutto.
E l’intuizione non è la caratteristica che brilla particolarmente nell’aggressivo e nell’esibizionista, troppo accecati da se stessi per cogliere tutte le sfumature di una situazione. Tale dote infatti si sviluppa proporzionalmente al tramonto del narcisismo individuale.
È mettendo tra parentesi se stessi e il proprio ego che diventa possibile riconoscere le occasioni giuste e coglierle, nell’ottica di un accrescimento delle potenzialità di vita di sé stessi e degli altri. Perché in questo cogliere le occasioni non esiste mai solo un guadagno personale ma si apprezza una qualche ricaduta virtuosa sulla comunità.
Il tramonto dell’ego
Cosa significa operativamente il tramonto dell’ego? Di fatto stiamo parlando dell’uscita dall’infanzia, dal bozzolo dell’onnipotenza per cui i desideri corrispondono già ai fatti, senza passare attraverso il vicolo stretto degli atti e dunque della prova di realtà.
Smantellare l’ego vuol dire abbandonare ogni presunzione per addentrasi nell’arena dei fatti, che svelano impietosamente chi siamo e cosa sappiamo davvero fare. Vuol dire toccare con mano i nostri limiti e decidere se darci finalmente da fare per migliorarci, per imparare, e soprattutto per capire la differenza fra ciò che non possiamo cambiare e ciò che è in nostro potere trasformare.
Allora, umilmente, saremo operosi e in una certa misura, variabile per ciascuno di noi, avremo la vista sufficientemente lunga per capire se ciò che stiamo facendo vale la pena, per noi e per gli altri.
Se invece rimarremo intrappolati nel narcisismo allora dietro ad ogni volto, a ogni persona diversa da noi si nasconderà un nemico da sgominare e umiliare, perché non avremo capito che il vero impedimento al successo non è mai l’altro ma soltanto la pesante ombra di noi stessi.