Gli insegnamenti del dolore
Il dolore fisico, entro una certa soglia, ha l’effetto di intensificare anziché di diminuire la lucidità mentale degli esseri umani. Per questo, una volta guariti da qualche malattia debilitante, sarebbe importante che essi non si affrettassero a dimenticare velocemente il male patito, ma ne conservassero al contrario la memoria come antidoto contro la superficialità del benessere.
Rimozione del dolore o suo attraversamento?
Accade infatti che una vita agiata, ricca, piena di stimoli e di confort di ogni genere sganci eccessivamente la coscienza umana dal proprio ancoraggio fisico, illudendola con false credenze e lasciandola poi smarrita e sbigottita di fronte all’emergenza improvvisa del male.
Non a caso la vecchiaia è l’età più temuta e più svalorizzata dalla nostra civiltà, proprio perché il vecchio, con il suo aspetto decadente e le sue cupezze, incarna perfettamente la condanna a cui la carne ci espone, e dunque l’insensatezza e la precarietà di ogni nostra positiva certezza.
Grazie alla rimozione del ricordo dell’esperienza annichilente della malattia per il giovane o per l’uomo di mezza età è facile rituffarsi nella vita e nei suoi piaceri, al prezzo però di una vulnerabilità latente e continua. Ciò che viene rimosso infatti torna, sempre, in maniera per di più sintomatica (è una legge inaggirabile che governa la psiche).
Così che la paura diviene un sottofondo continuo delle giornate oppure salta fuori in maniera incongrua e sproporzionata rispetto alle situazioni che la scatenano, non mollando più, come l’ombra invisibile della così detta “dolce vita”.
Non per nulla i tempi moderni sono connotati da un’esplosione di ipocondria ormai generalizzata; più si rimuove il male, più esso si insinua con il suo spauracchio nelle pieghe della quotidianità splendente e attiva. Le diete, lo sport, la cura del corpo, i vestiti… Dietro ad apparenze luccicanti si celano affanno e terrore, fino all’ossessione, fino al ricongiungimento con quella disperazione da cui si cercava di stare alla larga.
Che fare dunque del ricordo dei nostri momenti più bui, in special modo di quelli in cui il disagio è così forte da togliere il fiato e nei casi più estremi perfino il senso di identità?
La malattia notoriamente inchioda al corpo, gli organi, di norma silenti, si mettono a fare rumore e per farsi sentire usano il dolore come strumento di comunicazione. “Fermati” paiono gridarci, e tutti i programmi, gli impegni, i godimenti vengono spazzati via. Il corpo, in posizione fetale, si rannicchia e avvita su se stesso in un letto, non esiste più nulla rispetto alla marea infinita di ore d’immobilismo a venire.
Accanto al senso di schiacciamento soggettivo la mente, più o meno assordata dal fracasso delle sensazioni, continua tuttavia ad essere lucida. Ad osservare. E a dirsi, bene, allora che cosa cavolo è davvero la vita? Fino ad ora abbiamo solo scherzato? Davvero finisce così, prima o poi? Un urlo di dolore e poi un nulla liberatorio?
Queste domande, che più o meno coscientemente ci poniamo tutti quando stiamo davvero male, non vanno scordate per il semplice fatto che se volteremo loro le spalle poi ci ossessioneranno nei momenti più felici. Invece, guardare in faccia questa drammatica verità ci ricongiunge a ciò che conta davvero, permettendoci di assaporare poi di gusto le tregue, le bonacce e quindi la condizione precaria, miracolosa di salute.
Il balsamo dell’amore
Quando siamo messi a tappeto dal dolore chiediamo aiuto. Apprezziamo con tutta l’anima il gesto di aiuto, lo sguardo gentile, la parola di conforto. Quante volte lo facciamo normalmente? Facciamoci caso. La malattia ci rende non solo più acuti ma enormemente più umili. Ci fa capire, se vogliamo ascoltare, quanto siamo dipendenti dagli altri, quanto l’amore sia la forza numero uno a cui dovremmo affidare la nostra vita.
L’amore, non le passioni effimere. Quante volte le due cose vengono scambiate le une per le altre? Se il vostro partner vi soccorre, vi sopporta mentre vi lamentate in preda ai crampi e siete francamente pesanti potete dire di essere amati.
Se invece scappa, sfugge, vi insulta perché di colpo non siete più gentili e simpatici fatevi delle domande, fatevele sul serio. Che senso ha accompagnarsi a chi, nel momento della fragilità (e dunque della verità più vera di quello che siamo) diventa evanescente se non aggressivo e colpevolizzante?
Come si vede dalla malattia possono scaturire delle epifanie che avranno poi impatti positivi per i tempi futuri se le sapremo accogliere, con tutto il loro correlato e pesante bagaglio.
Gli impegni persi, i giorni buttati via a letto, sottratti al lavoro o alle vacanze non saranno così scivolati via invano. Ci ritroveremo più ricchi, più consapevoli e, sebbene più ammaccati, un po’ meno nevrotici, perché più a contatto con i problemi reali rispetto a quelli supposti o immaginari.