Skip to main content

Azione o accettazione?

Molti malesseri psicologici oggigiorno si connettono ad una scarsa coscienza di sé stessi e delle dinamiche elementari che regolano la vita, dando luogo frequentemente a circoli viziosi di erranza e sbandamenti.

Fuggire, fuggire lontano appare come l’unica, fragile difesa dalla morsa del male.

 Quando in terapia si tocca incidentalmente il tema dell’imparare a stare, dell’accettare, la prima reazione di molti di solito è di diniego e di rigetto: io voglio cambiare, mica lasciare le cose così come stanno, allora non c’è nulla da fare, mi devo rassegnare a soffrire?

Fragilità contemporanea 

L’equivoco è lecito, soprattutto perché viviamo in un contesto culturale che illude che essere felici significhi consumare tutto illimitatamente e che spinge dunque solamente sull’azione come strumento per risolvere i problemi dell’anima (purtroppo considerati come meri intralci all’affermazione egoistica di sè).

Le situazioni complesse non sono tollerate, si cerca di sbarazzarsene facendo qualcosa, a volte qualsiasi cosa, pur di non sentire la stretta di una coscienza infelice. 

Le vacanze, lo sport, il cibo,  gli acquisti, le serate, il sesso (che potrebbero essere di per sé delle esperienze interessanti, fonti di ispirazione, nutrimento e rivelazione)  vengono sperimentate come delle pure modalità di evasione, usate al solo scopo di “resettare” la mente, scacciare i pensieri e allontanare i disagi. 

Si genera così un progressivo appiattimento e indebolimento della stoffa individuale, perché l’essere umano in questo modo, se da una parte crede di strumentalizzare a proprio vantaggio persone e cose, si ritrova infine alla mercé degli stessi oggetti e vissuti che inebriano e stordiscono, tirano su e buttano giù.

Un grande vuoto assale dopo certe abbuffate di vita, proprio perché esse sono vissute senza un minimo distacco critico, senza gusto, senza pensiero.

La sensazione di impotenza, il panico disperato, il rifiuto di tutto e di tutti ritornano immancabilmente  amplificati e resta soltanto una vaga speranza che “accada qualcosa” che finalmente venga a liberare. La volontà e il sentimento sono altrove, volatilizzati. Il vittimismo la fa da padrone, deve essere l’altro a venire e a salvare.

L’assenza di strumenti 

Un problema enorme dell’uomo di oggi è questa sua totale sprovvedutezza di fronte alle crisi più banali della crescita o dell’età adulta.

Mancano gli strumenti mentali ed emotivi di base per orientarsi, per distinguere il bene dal male, per non sprofondare nell’individualismo sfrenato e  perdersi nella giungla delle difficoltà, delle offerte e delle suggestioni.

L’uomo di oggi per certi versi reagisce alla vita come un bambino lasciato solo dentro un gigantesco ma inquietante lunapark. 

 Si capisce bene quanto fare appello prematuramente a certi concetti sia destinato allo scacco.  

Come può una creatura rimasta infantile capire la portata di un tema come quello dell’accettazione della sofferenza e della necessità dello stare nel malessere come condizioni preliminari di qualsiasi solida rinascita?

Ci vuole un certo grado di strutturazione psichica per afferrare tali significati, come fare dunque per non incorrere in fraintendimenti? Come aiutare il nostro fuggitivo a calmarsi, a fermarsi rinunciando ai soliti, ripetitivi agiti?

Il terapeuta moderno

Il terapeuta moderno, messo a confronto con la fragilità esasperata dell’umanità di cui si occupa, più che rifugiarsi nelle teorie  (per loro natura incomplete e fallaci), più che cercare ansiosamente un fare che lo garantisca, più che cementificarsi in false pose di sapere o peggio in ridicole identificazioni, bisogna allora che si metta seriamente al lavoro sul proprio spessore “morale”. 

Non è una questione di fede cattolica, né di adesione a formule vuote. Si tratta di effettuare dapprima un check rispetto al proprio grado di conoscenza diretta della difficoltà di vivere e una presa di visione di quelle che sono le modalità messe in campo per fronteggiarla. 

Il terapeuta, non solo per essere di qualche utilità ma anche per non soccombere alla propria stessa professione, ha necessità di guardarsi allo specchio molto accuratamente, cioè di praticare un lavoro di continua auto analisi il più spietata possibile. 

Non per mortificarsi o denigrarsi ma per avere una qualche idea di come si posiziona lui stesso rispetto ai grandi temi dell’amore, della sessualità, della malattia e della morte. 

Sarà facile così che incontri da qualche parte una privazione, piuttosto che una pienezza ideale. Il suo obiettivo infatti non è essere un modello ideale a cui l’altro si debba conformare, ma semplicemente qualcuno che sa bene di cosa si sta parlando quando si toccano temi che bruciano e che possibilmente abbia una fermezza adulta rispetto alla mancanza.

Se il terapeuta è in grado di vedere in primis e poi di sopportare il suo proprio, personalissimo fardello, se meglio ancora riesce a trasformarlo  in una benedizione che permette di accedere ai territori della creatività, se in una parola si scopre vivo nonostante il dolore (inaggirabile in ogni vita) allora potrà lasciare un segno positivo nella vita di qualcuno. 

Questo è il senso più proprio dell’accettazione di sé, non arrendevolezza al male ma sua accoglienza e  oltrepassamento fiducioso. Praticarla nella vita, senza sbandierarla ai quattro venti, sviluppa inevitabilmente capacità di visione oltre l’apparenza unitamente a tranquillità e centratura.

La rabbia come emozione sfuma, perché l’attenzione non è più su ciò che manca, su come le cose dovrebbero andare in linea teorica, ma sulla concretezza imperfetta e ricca che lo sguardo così dilatato riesce a penetrare.

Anche l’uomo di strada, perduto nella selva angosciante delle contraddizioni e delle attese della società, può fare questo passo, ma ci vuole tempo e pazienza. 

L’incontro con la solidità del curante (che tuttavia non è esente da mancanze), il vedere che questi non è interessato a correggere o a sorreggere sulle proprie spalle, il respirare un atteggiamento di rispetto e curiosità verso i così detti “problemi”  potranno forse contaminare anche l’anima più inquieta.

E per quella via smuoverne delle risorse, fargli intravedere altri scenari, altri modi di vedere le questioni, far nascere la voglia di capirci qualcosa  e di dimenticare per un po’ la fretta di buttarsi tutto alle spalle. 

Disagio contemporaneo

Altri articoli di attualità

La non accettazione del limite

Che significa rifiutare i propri e altrui limiti? Da dove origina tale attitudine? E quali ricadute ha sulla vita?

Un po' tutti gli esseri umani tendono a non voler accettare la propria castrazione, ovvero la limitatezza del proprio essere e delle sue possibilità espressive e d'azione. Anche i bravissimi, i più talentuosi hanno un punto debole, una macchia cieca che offusca in parte la loro lucidità. È un dato di struttura: la perfezione assoluta non è propria dell'umano, che è tale perché è diviso, lacerato, incompleto.

Leggi l'articolo

L'incontro con lo straniero

Davanti al progressivo aumento nelle nostre città di soggetti provenienti da altri paesi assistiamo ad un parallelo incremento del sentimento dell’angoscia nei cittadini. Perché ci angosciamo? Siamo i soli a sentirci disorientati dal contatto con il diverso o accade anche allo straniero stesso di sentirsi insicuro e diffidente?

Leggi l'articolo

Il bullismo visto dalla compagnia teatrale Quelli di Grock. Osservazioni sullo Spettacolo “Io me ne frego”.

Biglia e Rospo sono due ragazzini molto diversi. L’uno studioso, un po’ timido, ancora acerbo nel corpo. L’altro allergico alla scuola, chiacchierone, fisicamente prestante. Stanno bene insieme, sono amici. Tra loro c’è uno scambio spontaneo e vivace, al di là delle differenze caratteriali. La presa di giro, quando c’è, è lieve, non punta a distruggere ma esprime l’attrazione di fondo per la particolarità dell’altro.

Leggi l'articolo

Il culto moderno dell'apparire

Apparire è senz'altro uno dei principali diktat moderni. L'uomo contemporaneo è cioè pesantemente incalzato, fin dai banchi di scuola, ad esibire agli occhi del suo contesto sociale di appartenenza un'immagine di forza e di successo.

Leggi l'articolo

La sindrome di Peter Pan

La  figura di Peter Pan (un personaggio letterario, ibrido fra uccello e bambino), viene comunemente evocata per indicare l’immaturità emotiva tipica di alcuni soggetti, appartenenti  soprattutto al sesso maschile.

Leggi l'articolo

Il valore dei "no" del padre

La più importante e strutturante forma di limite che un essere umano normalmente dovrebbe incontrare agli albori della sua esistenza è quella incarnata dalla figura paterna. Alla necessaria fusionalità con la madre sarebbe cioè auspicabile che seguisse una "castrazione simbolica" operata dal padre, il quale, riattirando su di sè il desiderio della donna, staccherebbe così il bambino da quel godimento assoluto.

Leggi l'articolo

Rispetto e amore

Il termine rispetto viene dal latino e significa letteralmente “guardare indietro”. Il verbo “respicere” sembra alludere a qualcosa di più profondo di una semplice osservanza di una regola.

Leggi l'articolo

Chi si lamenta non vuole cambiare

Lamentarsi è un ottimo modo per non confrontarsi davvero con se stessi.

Leggi l'articolo

Verso la fine dell' anno scolastico: domande e risposte

I nostri figli adolescenti stanno iniziando a mostrare segni di cedimento a scuola. Come possiamo aiutarli ad arrivare alla fine dell'anno scolastico? 

Leggi l'articolo

L'essere, la mancanza e la schiavitù del possesso

L'essere umano è mancanza a essere, è cioè attraversato da una mancanza incolmabile, legata alla sua insufficienza strutturale, allo strappo patito rispetto ad un tempo mitico di pienezza. L'oggetto, insegna Freud, è da sempre perduto, può solo venir cercato all'infinito. Ogni suo ritrovamento nel reale è un inganno, un'allucinazione. La mancanza non si colma, non si può colmare, mentre la pulsione continua a spingere con forza acefala verso i suoi oggetti nonostante il niente appaia regolarmente al fondo di ogni soddisfazione puramente materiale.

Leggi l'articolo

Elogio del vuoto

Spesso siamo portati a credere che il valore del tempo risieda nella quantità di cui ne possiamo disporre per fare delle cose. Ci lamentiamo continuamente di non averne abbastanza, nella misura in cui ci percepiamo incalzati dalla necessità del far fronte a mille impegni da cui davvero non possiamo esimerci.

Leggi l'articolo

Fronteggiare la malattia

La malattia, la lesione, il deteriorarsi di un organo, una parte del corpo per gli esseri umani non sono soltanto fenomeni che investono la sfera somatica. Essi hanno un impatto enorme soprattutto sulla psiche di chi ne viene colpito.

Leggi l'articolo