La cura della lettura
In questi giorni di grande chiusura, in cui in molti si trovano in difficoltà perché a tu per tu con un grande vuoto di parole, un antidoto veramente potente è costituito dalla lettura.
Le parole che curano
Che le parole curino si sa. Ma a non tutti è così chiaro che il loro potenziale terapeutico non riguarda solo quelle che ci vengono direttamente rivolte da qualcuno che desidera uno scambio o quelle che riusciamo a esprimere scrivendo o parlando di temi a noi cari.
Anzi, forse la poesia, il romanzo, proprio perché esulano dal “botta e risposta“ e non hanno alcun riferimento diretto alla nostra persona, possono avere un’efficacia ancora più forte in termini di risveglio perché ci trascinano fuori da noi stessi e attraverso l’esperienza dell’altro stimolano intuizioni, visioni e riflessioni altrimenti inaccessibili.
Il dono degli scrittori veri (non dei semplici fornai di best seller, dei produttori di scritti di puro intrattenimento) è infatti quello di riuscire a marcare sfumature appena afferrabili di stati della mente, di esperienze o di emozioni. Ciò grazie ad un certo uso del linguaggio che rende il lettore non solo partecipe della storia narrata, ma anche incline ad una riflessione più o meno conscia sulla propria vicenda umana, pur lontanissima dai fatti trattati nel testo.
La letteratura, più che la saggistica, consente a chi legge questo tipo di salto fuori dal recinto per via del carattere non esplicativo e interpretativo della parola (in cui al centro non c’è l’Io di chi scrive), che procede proponendo in maniera impersonale flash di immagini in cui a visioni concrete di luoghi e situazioni si sovrappongono atmosfere, umori, percezioni interiori, in un unicum inestricabile e fortemente stimolante per la psiche di chi vi si accosta.
Dedicarsi alla lettura dunque risveglia quelle aree della mente non legate alla logica sequenziale e al ragionamento eccessivamente astratto. Leggere, pur restando nel campo dell’astrazione, sollecita un tipo di elaborazione intima e profonda, che procede per associazione, che implica oblio di sé, abbandono, accostamento e infine ricongiungimento al così detto “rimosso”, luogo solitamente inafferrabile, lontanissimo eppure dinamico e potente.
Analogie con la terapia
Salta all’occhio l’analogia con la cura. Il punto di giunzione fra un’analisi ben riuscita e un modo di leggere che spossessa a tal punto da sospingere nei territori dell’inconscio è la dimenticanza di sé stessi che però aggancia in maniera originale e inaspettata alla stessa interiorità. L’intenzionalità propria dell’introspezione in questo gioco non è in primo piano, il ricongiungimento avviene in maniera spontanea e a partire da altro da sé, da stimoli anche lontanissimi dalla propria condizione di vita.
Un limite dell’analisi e della psicoterapia, che basano la loro efficacia sulla parola, è infatti quello di partire direttamente dall’esperienza personale di chi parla, rischiando di bloccarsi in loop ripetitivi, in cui dominano sterilmente pensieri ricorrenti e troppo auto riferiti (da cui non si riesce ad uscire) mentre il grande escluso (muto e chiuso a doppia mandata) resta l’inconscio.
Gli psicoanalisti più noti e capaci, a partire da Freud, si sono dati un gran da fare per tentare di trovare delle vie d’accesso all’inconscio, ovvero delle aperture verso il mistero, l’inesplorato, ma tutte le tecniche bene o male risultano fallaci e passibili di ottenere l’esatto contrario rispetto a quanto si promettono.
L’invito a dire tutto quello che passa per la mente può suonare come “svuotare il sacco” e dare il via ad una vuota logorrea oppure può inibire il flusso di coscienza, le interpretazioni possono chiudere anziché aprire scenari, le interruzioni precoci delle sedute renderle fin dal loro inizio prevedibili invece che ricche di suspence, la neutralità mortificare piuttosto che incentivare la così detta produzione spontanea.
L’apertura verso paesaggi mentali inesplorati non è dunque garantita da nessuna tecnica, si tratta di una magia che si produce ogni volta che scatta un oblio di sé, come se in seduta a parlare fosse un’altra voce narrante, proprio come accade quando nella lettura si è davvero dentro, presi, catturati. Per quanto riguarda i libri non è neanche una questione di gusti. Spesso non assecondare le proprie idiosincrasie o preconcetti verso un autore può far scattare dei veri e propri innamoramenti, con grande sorpresa.
Farsi portare per mano da uno scrittore è un’esperienza consigliabile per dare una scossa al tedio e alla noia dello stare troppo dietro ai propri umori, pensieri e faccende personali. Come abbiamo detto non tanto ai fini della distrazione in quanto tale, ma per un nutrimento rigenerante valido contro molti malesseri dell’anima.
La lettura non produce identificazioni, lo scrittore ad un certo punto ci lascia, e ci siamo noi. La suggestione della sua scrittura può dare il là al nostro viaggio, ma esso non si esaurisce in una manipolazione mentale operata dalla malia del linguaggio. È al contrario un’esperienza grandiosa di libertà, grazie alla condivisione offerta dall’artista della sua opera.
Come semplici terapeuti, dovremmo a questo punto prendere ispirazione dagli artisti? Al di là dell’aspetto creativo (non raccontiamo storie), di sicuro qualcosa possiamo raccogliere dal loro stile nel nostro agire, ovvero la cancellazione di noi stessi pur nel mantenimento della nostra voce.
Esserci e non esserci. Dare il là per il viaggio dell’altro, fornire degli spunti, a volte intervenire per raddrizzare la rotta quando la tempesta o la bonaccia minacciano, ma toglierci il più possibile di mezzo, consci che in gioco non c’è la nostra esplorazione ma solo e soltanto quella dell’anima che ci si affida e di cui possiamo essere un umile supporto.