Insegnare: quando manca la passione
È esperienza comune purtroppo imbattersi in insegnanti che non solo non amano particolarmente il proprio lavoro, ma che lo fanno anche di malavoglia, con svogliatezza e senso di frustrazione.
Queste persone spesso mettono in atto atteggiamenti inutilmente autoritari e derisori, tentando di trovare una qualche rivalsa nell’esercizio del potere sui più deboli, deboli solo perché ancora non in grado di padroneggiare scioltamente le nozioni o pratiche oggetto di studio.
Dove si insegna?
La scuola e l’università sono naturalmente gli ambiti in cui il fenomeno emerge in maniera più clamorosa, proprio perché si tratta di sistemi basati interamente sul principio dell’apprendimento.
Ma possiamo trovare tracce di questa modalità in moltissimi contesti, i più disparati, nei quali è prevista una parte di attività di trasmissione di concetti, tecniche o semplici informazioni.
Le aziende, i negozi, le fabbriche, gli studi professionali ecc… per esempio sono luoghi dove il passaggio di esperienze e conoscenze è cruciale. Le figure deputate all’insegnamento non sono solo i così detti “trainers”.
A livello concreto ogni dipendente diventa un insegnante nel momento in cui arriva una persona nuova; quando poi si verifica una progressione di carriera con relativa gestione di persone i momenti di formazione sono all’ordine del giorno.
Esiste poi tutto il campo della formazione di pratiche concrete, dei corsi e delle così dette accademie dedicate alla formazione professionale o dilettantistica. Senza parlare del mondo dello sport, agonistico o amatoriale, in cui la figura dell’istruttore svolge un ruolo cruciale.
Insomma l’insegnamento è qualcosa che non resta confinato dentro il contenitore scuola ma si ramifica e estende in moltissimi luoghi dove si produce e si fa qualcosa.
Tutti noi, in specifiche situazioni, siamo chiamati a ricoprire più o meno temporaneamente il ruolo dell’insegnante, che ci piaccia o meno.
Tuttavia, messe di fronte al compito di guidare qualcuno nell’apprendimento, moltissime persone, anche esperte e competenti, tendono a dare il peggio di sé stesse. Come mai? Cosa scatta nella mente del cattivo insegnante?
I perché del cattivo insegnante
L’aggressività è la causa più comune di insuccesso educativo. Esiste infatti in certi educatori (professionali e non) una strana pretesa, quella che l’altro capisca al volo un concetto o una prassi.
Tale pretesa è destinata tuttavia fatalmente a incontrare inevitabilmente l’intoppo delle resistenze, insicurezze o particolarità individuali della persona che nella specifica situazione ricopre il ruolo del discente.
Essa è frutto di un’intolleranza più profonda, quella nei confronti della propria parte vulnerabile.
L’aggressivo infatti non tollera la debolezza dell’altro (l’allievo è per l’appunto in una posizione di debolezza data dal non sapere) perché essa gli rimanda come in uno specchio la propria, che non sopporta e non integra in un’immagine a tutto tondo di sé stesso (comprendente punti di forza e di debolezza).
Alla base della psicologia dell’insegnante aggressivo troviamo sempre una problematica di natura narcisistica, una questione psicologica irrisolta sul piano dell’immagine di sé. Alla base vi è dunque una grossa quota di frustrazione; la persona si sente limitata nel dover spiegare qualcosa a qualcuno, pensa di meritare gratificazioni ben maggiori rispetto alla perdita di tempo data dall’occuparsi degli altri.
Tipico è l’esempio dello scrittore fallito che vive la sua vita di insegnante di lettere come una condanna; lui, così bravo, meriterebbe ben altri riconoscimenti. E allora tutte le sue ambizioni mancate vengono riversate sui poveri allievi, che nella loro ignoranza gli mettono di fronte la sua miseria di scrittore velleitario e incapace.
Non mancano esempi analoghi nel mondo dello sport: a chi non è capitato durante un corso di qualsiasi genere di imbattersi in qualche ex campione di bassa lega pieno di rabbia e di livore per le proprie ambizioni mancate?
Nei luoghi di lavoro avviene la stessa cosa: chi ha fatto un passetto in più nella carriera, anziché nutrirsi di uno spirito positivo e trascinante, sente la necessità di mortificare il sottoposto, per sentire di valere un po’, di avere anche lui un po’ di quella fetta di torta chiamata potere.
L’allievo vessato, adulto e sicuro di sé non soffre particolarmente di questi atteggiamenti; tutt’al più essi gli possono ricordare dolorosamente momenti della propria infanzia, quando si trovava in balia di insegnati malati.
Da adulti si è in grado di padroneggiare situazioni di questo genere senza subire danni psicologici gravi. Certamente venir trattati con aggressività non predispone certo a relazioni positive. Tutto si complica sia sul piano della progressione dell’apprendimento che su quello squisitamente umano. Viene persa un’occasione, quella che da un buon incontro fa scaturire creativamente qualcosa che prima non c’era.
Al contrario durante l’età evolutiva i cattivi insegnanti possono produrre blocchi e ferite emotive molto profonde e difficili da superare. Non di rado durante le sedute di psicoterapia si sente parlare, come fossero dei fatti recenti, di episodi avvenuti nell’infanzia, a scuola, in palestra, a lezione di musica.
Sarebbe importante allora che ogni educatore, temporaneo o per professione, cercasse di fare ordine in sé stesso, conscio della delicatezza del suo compito.
Senza passione non si ottiene niente. Forse la mediocrità deriva proprio dall’assenza di una dose fondamentale di umiltà (a cui si lega ogni genuina spinta vitale)? Mettersi spietatamente di fronte ad uno specchio appare quanto mai necessario.
Allora si potrà capire l’importanza e la grandezza del compito educativo: occuparsi degli altri non sarà più una perdita di tempo o una sottrazione di energie, bensì una possibilità concreta di creare qualcosa, di smuovere energie positive e di evolvere come persone.