Impulsività e difficoltà di regolazione emotiva
In genere si pensa che le persone si dividano fra impulsive e riflessive, le prime predisposte a decisioni “di pancia”, rapide e magari rischiose, le seconde inclini all’analisi e dunque soggette alla procrastinazione.
Queste due tipologie “pure” in realtà si trovano molto raramente. Esistono infatti persone molto razionali e controllate che agiscono sistematicamente sull’onda dell’ impulso, per poi “pentirsi” e tentare di rendere non avvenuto un certo atto.
Tali tentativi di cancellazione non coincidono con un’elaborazione delle cause soggiacenti, portando fatalmente alla ripetizione di atti impulsivi in un’alternanza potenzialmente infinita di esposizioni e ritirate.
Ad una lettura attenta ci si accorge come l’impulsività sia una caratteristica non tanto propria di una specifica categoria di soggetti, bensì tipica del comportamento umano. Alcuni imparano a regolarla efficacemente, mentre altri ne restano schiavi.
Acconsentire all’impulso permette infatti di sbarazzarsi velocemente di una sensazione interna di tensione (tensione mentale, tensione sessuale, tensione aggressiva…) attivando sensazioni immediate di benessere e di ricompensa legate alla scarica.
Ma se il consenso all’impulso non si aggancia ad una consapevolezza più ampia e ad un consenso verso la complessità della situazione in cui ci si sta inoltrando (conseguenze negative incluse), esso si rivela un atteggiamento superficiale ed egocentrico, non esente da complicazioni sia per chi lo agisce che per chi si trova implicato nella situazione.
Cosa significa “regolare” gli impulsi?
L’impulso non è assolutamente da disprezzare di per sé. Esso ci mantiene in contatto con la nostra natura più istintiva e genuinamente viva, ha il potere di scompaginare un po’ le carte e di far circolare delle energie.
Restare in contatto con impulsi e desideri ha dunque una grande importanza, perché fornisce informazioni preziose rispetto ad una parte di noi “non irreggimentata” dai condizionamenti sociali (che spingono verso il conformismo).
Ma questo restare in contatto, in ascolto, non significa automaticamente dire sì ad ogni voglia.
Gestire l’impulsività non si sostanzia né in un assecondare la pulsione del momento, né in un reprimerla come se non esistesse.
Un buon lavoro introspettivo permette di identificare e di dare un nome all’esigenza più o meno profonda di cui la pulsione è spesso muta portatrice. Significa accogliere l’istanza, darle diritto di parola e poi avviare un processo decisionale consapevole, che tenga conto del principio di realtà. Non dunque repressione, ma ascolto e possibilità di realizzazione di una gratificazione in accordo con i vincoli della realtà.
Chi resta schiavizzato dagli impulsi mutevoli e capricciosi lascia che il “principio di piacere” (così si esprimeva Freud per riferirsi al paradiso perduto della gratificazione esente da frustrazioni) guidi la sua condotta, alla maniera dei bambini intemperanti e viziati.
“Lo voglio, lo voglio e lo voglio adesso” si traduce in una brama senza fine e pericolosa, in cui la persona è sempre pronta ad assolversi invocando forze “più forti di me”.
Questa questione della regolazione degli impulsi la troviamo un po’ in tutte le problematiche psichiche, nelle psicosi, nei disturbi della personalità (che presentano modalità di funzionamento della mente arcaiche e infantili) ma anche in situazioni più evolute.
Più il quadro clinico è compromesso più l’impulsività risulta fuori controllo e comporta manifestazioni comportamentali abnormi, eclatanti e rovinose. In questi casi la terapia porta a contenere i danni, il lavoro vira verso l’apprendimento di strategie per tenersi il più possibile fuori dai guai.
Purtroppo certe problematiche rendono impossibile un lavoro fino di elaborazione dei perché. Quando ciò accade per via dell’ eccezionalità delle risorse e delle doti della persona, il tutto resta però ad un livello a cui sembra sistematicamente mancare l’accesso ad una dimensione della responsabilità che non sia punitiva, feroce e super egoica.
Impulsività nella “psicopatologia quotidiana”
In situazioni di relativa normalità, il discorso apparentemente sembra più semplice. Non abbiamo di solito dei comportamenti particolarmente distruttivi (shopping compulsivo o gioco d’azzardo patologico che sfociano in debiti insostenibili, abuso di sostanze incontenibile con ogni mezzo, sessualità disinibita e promiscua, incapacità di mantenere un’occupazione stabile ecc…), bensì osserviamo l’impulsività in forme più subdole, più sotto soglia.
Lavori lasciati di colpo, cambi di città, matrimoni frettolosi, separazioni, ricongiungimenti ecc…sono solo alcuni esempi di atti compiuti impulsivamente per lasciarsi alle spalle rapidamente inquietudine o noia.
La comparsa della depressione segnala sempre la natura impulsiva di questi salti nel buio e induce a ritornare sui propri passi, sconfitti ma non necessariamente maturati. Il più delle volte chi torna al lavoro di una volta, a casa di mamma o alla vecchia relazione sente solo un gran senso di fallimento, unitamente al sollievo di essersi in qualche modo salvato da un abisso.
È dunque soprattutto nel territorio delle relazioni affettive che vediamo in azione lo sfogo degli impulsi che resta sganciato da una presa di posizione più profonda e responsabile verso la propria vita e i propri desideri.
Tipica, sebbene non unica, è la situazione di chi nutre dei desideri fuori dalla relazione con il partner. Cedere all’impulso di farsi un’amante per poi tornare come nulla fosse nella solita routine, non è tanto segno di impulsività (se non nella scarica di un impulso sessuale), ma soprattutto di calcolo. Gli impulsi e i desideri sono distinti rigidamente dal buon ordine.
L’impulsività vera e propria scatta quando viene rovesciato il tavolo, quando i compagni sono lasciati per l’amante sull’onda del sentimento ma poi questo sentimento mostra il suo lato illusorio e si vuole tornare indietro.
In questi casi l’azione di andare fuori di casa è portata avanti senza ponderazione e convinzione, per sollevare da uno stato di tensione mentale a cui non si riesce a venire a capo tramite un lavoro su se stessi.
L’atto, anziché liberare e portare benessere, provoca sentimenti depressivi e di perdita. Cercare di cancellare l’avvenuto per rimettersi nella condizione di partenza non è segno di una presa di coscienza ma solo del solito meccanismo interno che spinge a sollevarsi nuovamente da una tensione insopportabile.
La psicoterapia può aiutare molto a rallentare, a non precipitarsi, a privilegiare il tempo lungo della comprensione, che può implicare anche delle prese d’atto dolorose dei propri limiti.
Lo scopo è sempre quello di potersi riallacciare ad un nuovo equilibrio, basato però non sul semplice “scampato pericolo” bensì su una solida e coraggiosa conoscenza di sé stessi.