Covid e salute mentale
In questi anni di pandemia stiamo assistendo ad un’esacerbazione di molti disagi psicologici. Lo spettro della malattia, la precarietà lavorativa, la tenuta traballante del sistema sanitario e sociale, la chiusura fra le quattro mura, la solitudine, l’aspettativa di un pieno ritorno alla normalità ciclicamente frustrata concorrono al mantenimento di stati depressivi e ansiosi (senza parlare delle ben note reazioni maniacali di negazione della realtà).
Malattia sociale?
Ciò che sta accadendo, se inizialmente aveva le caratteristiche di un trauma collettivo, oggi sta assumendo le forme di una vera e propria malattia cronica del tessuto sociale. Essa impatta sulla vita di ciascuno di noi, nessuno può ritenersi indenne pur nella variabilità delle condizioni individuali.
Si sta infatti profilando davanti a noi un tempo potenzialmente “infinito” di convivenza con il male, fatto di periodi di remissione che si alternano con altri di recrudescenza, caratterizzato da momenti di “quasi normalità” a cui seguono chiusure e regole comportamentali da stato di emergenza.
Si capisce come una situazione del genere, che non ha più le caratteristiche di eccezionalità ma diventa la normalità, richieda capacità di elaborazione della perdita, di gestione dello stress e di adattamento non comuni. Ci vuole molta forza per andare avanti con equilibrio, mantenendo uno sguardo lucido e al tempo stesso non lasciandosi sopraffare dallo sconforto.
La tendenza negazionista di fronte a un problema di cui non si hanno gli strumenti per conoscerne a fondo la portata e la vera entità è molto umana. È il meccanismo di difesa più frequente che infondo l’umanità adotta e ha sempre adottato per sopravvivere. Se ci pensiamo ogni giorno, per vivere, ignoriamo i pericoli e i problemi a cui siamo esposti, pur di preservare un (fittizio) senso di controllo.
Basarsi però esclusivamente sulla spinta cieca alla vita non può essere l’unica ed esclusiva arma di difesa di esseri evoluti che vivono in società, perché essa porta inevitabilmente con sé un individualismo sfrenato, regressivo rispetto ai valori del vivere civile. L’aggressività cresce a dismisura, imbarbarendo i costumi, la comunicazione e il rapporto con l’altro, fomentando il rischio del dilagare dell’odio.
La lucidità rispetto al guaio in cui siamo è dunque essenziale, così come è essenziale capire la ratio delle regole e adeguarsi senza alimentare egoistiche resistenze. Bisogna fare uno sforzo introspettivo e riconoscere in noi la spinta irrazionale a “fare finta di niente”, riuscire a vederla per quella che è, ovvero una difesa dall’angoscia ingenerata dal vacillamento del nostro mondo così come lo conoscevamo.
Il problema dunque c’è, esiste. Possiamo, cooperando il più possibile, mettere qualche fragile argine alla violenza della natura. Ma come preservare in noi la “speranza”, quando lo sguardo liberato dalla tentazione del paraocchi ci fa vedere tutta la complessità che stiamo vivendo?
Se l’angoscia deriva dalla percezione di uno sconvolgimento della nostra “normalità”, la depressione spesso è il risultato dell’estrema lucidità. Il senso di impotenza e di disperazione possono prendere il sopravvento sulla ricerca di sane strategie di adattamento. Per non parlare dello sviluppo di forme fobiche di evitamento.
Il ruolo della psicoterapia
La psicoterapia può aiutare proprio in relazione a questo delicato snodo, l’insidioso crinale del passaggio alla presa d’atto della serietà della situazione. Il lavoro analitico spesso porta a confrontarsi, dopo l’incontro con la realtà che non si riusciva a vedere perché offuscati da mille fantasmi, con il senso della perdita.
Si può dire che lo svuotamento di natura simil depressiva che segue una presa d’atto dolorosa sia uno dei passaggi più delicati di una cura. La tentazione di tornare indietro e accomodarsi su difese immediate, comode benché limitanti per la crescita e il benessere emotivo, è sempre molto forte.
Attraversare il lutto, ovvero accettare fino in fondo la perdita (forse fino in fondo non è mai possibile perché nel nostro cuore qualcosa si oppone sempre tenacemente alla frustrazione dei nostri desideri) è la base per limitare lo scoramento e iniziare a lavorare per gettare le fondamenta di una nuova vita.
In questo tempi così difficili abbiamo bisogno di riconoscere l’angoscia e la depressione, inquadrarle nella giusta maniera e non permettere alle modalità primitive di reazione di guidarci nell’azione, sia in un senso debordante (negazione) che inibente (panico, fobie, depressione).
Possiamo così sviluppare una buona “resilienza”, che non si sostanzia in atteggiamenti spavaldi o opportunistici. Essere resilienti vuol dire anche mettere in conto di rinunciare a qualcosa senza pensare che tutto è perduto. Significa infondo accettare che siamo strutturalmente limitati, legati gli uni agli altri, pur potendo mantenere ampi margini di libertà.
Coltivare la libertà interiore è sempre possibile, anche quando siamo afflitti da mille limitazioni. Reperirsi intimamente liberi porta a sviluppare quella creatività indispensabile per sopravvivere alle brutture. Ogni giorno ha il suo carico di lotta ma anche la sua bellezza nonostante tutto.
Riuscire a coniugare realismo, razionalità, lucidità, cooperazione, rispetto delle regole con adattamento, creatività, speranza e senso della vita che continua è la grande sfida a cui siamo chiamati oggi più che mai.