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Quando il lavoro è una prigione

Se la mancanza di lavoro costituisce un problema, nella misura in cui priva della possibilità di un’esistenza dignitosa e attiva, un impiego non pienamente in linea con la propria personalità rischia di risultare altrettanto mortificante.

La sofferenza soffocante

Tra i giovani e i meno giovani che oggi chiedono aiuto per situazioni di stress legate al lavoro, emerge insistentemente il tema dell’insoddisfazione.

 Essa è da intendersi non nell’accezione di mancanza di voglia di fare o di rifiuto cronico di qualsiasi cosa, ma in quella più sottile e disperata legata ad un senso di soffocamento soggettivo.

Tale situazione di malessere, che si traduce spesso in sintomi psicofisici pesanti, è inoltre aggravata dal macigno del senso di colpa. Come ci si può lamentare di avere un lavoro, che talvolta offre pure condizioni lavorative invidiabili in termini di prestigio e di remunerazione economica? Come permettersi di stare male nell’abbondanza?

Il senso di illegittimità del proprio disagio riflette da una parte la dominanza a livello sociale dell’idea per cui “il lavoro è sacro“ sempre e comunque, dall’altra la presenza di un contesto familiare che non ha incentivato (se non apertamente ostacolato) la ricerca di se stessi in termini di autenticità.

L’ideologia del sacrificio è infatti un ottimo strumento di controllo delle masse (il non conformismo dell’essere se stessi comporta sempre un margine di ingovernabilità) e al tempo stesso un diffuso riferimento educativo per le famiglie.

La paura è il sottofondo di questo discorso sociale e familiare: paura di che cosa? Forse della diversità non educabile di ciascuno di noi, non riconducibile ad un modello ideale e prevedibile? E cosa si annida a sua volta dietro a tale angoscia, forse una sostanziale incapacità di amore non narcisistico?

I bravi figli ubbidienti

I genitori che amano in maniera non narcisistica sono infatti quelli che non nutrono aspettative di nessun genere, assecondando e non inibendo l’inclinazione spontanea del figlio, lasciandola crescere e andare anche incontro alle inevitabili difficoltà del cammino di vita.

La fiducia di questo genere nelle possibilità dei figli, mettendo in conto l’eventualità che essi perdano tempo (e quindi anche che sbandino),  è sostanzialmente sintomo di fede nella positività della vita (il contrario della paura) ma è mancata in molte storie di giovani adulti disillusi dal mondo del lavoro.

Per anni sono stati bravi figli ubbidienti, neanche si sono accorti di aver sposato gli ideali o le paure genitoriali, le loro ambizioni mancate o le loro frustrazioni.

Ottimi voti a scuola, poi successi all’università. Tutto perfetto. Fino a che l’impatto con il mondo del lavoro getta drammaticamente nella vita, verso la quale si è impreparati.

Il risveglio in molti casi è traumatico: il lavoro sbagliato inchioda alla verità di chi si è e di cosa si vuole, verità rimasta chiusa nel torpore rassicurante dell’adeguamento conformistico ai “desiderata”
della famiglia.

La crisi non è ammissibile, essa non è accolta bene nè dai genitori, che la interpretano come un segno di debolezza, nè tantomeno dal giovane  che la attraversa. Egli ritiene di essere sbagliato e in trappola, non potendo cogliere immediatamente l’opportunità nascosta nella crisi.

La percezione di mancanza di via d’uscita riflette lo stato di sottomissione psicologica all’altro familiare, in conflitto lacerante con l’emergenza imprevista e scomoda della propria diversità.  

Reprimersi ed andare avanti è la via più battuta, al punto tale che una serie di sintomi psicosomatici si incarica di farsi portavoce di verità negate.

Nel giovane tale dinamica è più evidente e dirompente, ma essa è visibile in filigrana in pazienti più in là negli anni, che magari hanno vissuto vite intere che non desideravano vivere.

La possibilità della psicoterapia

Il tema è molto delicato, in psicoterapia ci si arriva spinti dal lamento e dalla sofferenza.

Non è affatto semplice realizzare certe dinamiche, e ancor di più riuscire a farsene qualcosa.

Cambiare rotta non è da tutti, e non è obbligatorio avere tutta questa forza. In molte situazioni fa già moltissimo far chiarezza e mettere ordine, al di là di possibili atti nel reale.

La cosa più importante, sia che la persona sofferente affronti o meno un cambiamento, è garantire uno spazio di neutralità.

La neutralità non esclude la partecipazione o l’assunzione di un ruolo guida in particolari circostanze.

Essa non è indifferenza, tuttavia rappresenta quella forma di accoglienza radicale di cui le persone hanno primariamente bisogno, soprattutto quando già eccessivamente caricate di attese da parte dell’altro.

Disagio contemporaneo

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