La famiglia bi-monogenitoriale
“Famiglia bi-monogenitoriale” è un’espressione coniata dallo psicoanalista francese Jean-Pierre Lebrun, per riferirsi a quelle famiglie in cui il bambino di fatto tratta con un solo genitore, anche quando madre e padre vivono nella stessa casa e gli scambi apparentemente avvengono con entrambi.
Tale avere a che fare con un solo genitore non va inteso infatti in senso letterale: il bambino, pur avendo concretamente contatti sia con la madre che con il padre, non sperimenta tuttavia una sostanziale differenza nel tipo di relazione. Incontra per così dire due volte un unico genitore, tendenzialmente la madre. In questo scenario è il padre in quanto figura portatrice della legge ad essere messo in scacco, spessissimo ridotto al rango di colui che ha dato un bambino alla donna (che le ha permesso di fare il “suo” bambino) ed appiattito così a suo mero sostituto, baby sitter, assistente tuttofare, figura intercambiabile e “unisex”.
Le cause della sparizione del padre nel sociale
Nella sua analisi Lebrun sostiene come oggigiorno la legittima pretesa all’uguaglianza fra cittadini, frutto del rovesciamento di un sistema basato per secoli sul patriarcato, si sia trasformata in un’ideologia ugualitaria, ovvero in una progressiva delegittimazione di ogni differenza di posizione.
L’uguaglianza delle condizioni di diritto viene allargata indiscriminatamente fino a trasformarsi in negazione delle differenze, così come accade per i sessi. Parità di diritti viene erroneamente interpretata come azzeramento dell’unicità e della ricchezza delle caratteristiche di genere.
Non solo, la non accettazione della differenza di posizioni simboliche (che nulla toglie ad un’uguaglianza nei diritti umani) fa sì che ogni posto d’eccezione sia guardato con sospetto, perché passibile di trasformarsi nel luogo dell’abuso di potere e dell’autoritarismo patriarcale. Non a caso oggi è sempre più difficile reperire candidati che occupino posti di responsabilità, sempre più esposti ad attacchi e denunce. Da ciò scaturisce pure la tanto diffusa paralisi della decisione: chi decide in caso di divergenze se siamo tutti uguali?
Padre e madre hanno dunque un ruolo paritario nell’educazione dei figli, proprio perché i posti della madre e del padre hanno finito per equivalere. Ma allora appunto, chi decide quando non si è d’accordo?
Di fatto molto spesso ad essere messa in discussione è la legittimità del padre concreto ad intervenire sul figlio. Questo perché, ci spiega Lebrun, l’uguaglianza virtuale, implicita nella democrazia, non dice come debba essere gestito il prevalere di una parte in caso di disaccordo. E perciò capita ormai spessissimo che sia la decisione della madre a prevalere. Il padre, non più supportato dal discorso sociale nella legittimità del suo intervento, si trova suo malgrado “dimissionario”.
Le ricadute dell’assenza del principio paterno
Nello scenario descritto la parola autorevole non funziona più. Nel discorso comune scompare la legittimità di “costringere” il bambino ad incorporare qualsivoglia legge. E la legge è fondamentale per umanizzare la vita, basti pensare che se non impariamo la grammatica non impariamo neppure a parlare. Non è la parola ciò che ci differenza dagli animali, ciò che ci permette di integrare, raffinare e quindi trascendere la brutalità degli istinti?
Quindi per diventare uomini nel pieno senso del termine dobbiamo necessariamente passare per il vicolo stretto della legge e della costrizione. Ma che succede se al bambino, a causa di questa crisi dell’autorità, viene a mancare l’esperienza del confronto con il limite che umanizza la vita? Se non c’è più nessuno che sopporta il peso dell’odio del piccolo nei suoi confronti? Se nell’educazione prevale a senso unico il discorso della madre, che è il discorso dell’amore, del sostegno, dell’aiuto, dell’assistenza?
Il bambino logicamente ne approfitta, si legittima cioè a rifiutare qualsiasi no, qualsiasi interdizione. Non solo diventa ingestibile nella condotta, un piccolo tiranno. Ma può pure sviluppare un’aggressività di cui gli adulti non riescono a capire il vero significato. Essa altro non è che la rabbia verso il materno, il materno debordante che taglia fuori il padre ed inchioda ad un eterno corpo a corpo invischiante ed infantilizzante con la madre.
Non si tratta allora di restaurare il patriarcato, di rimpiangere il padre padrone e i suoi sistemi notoriamente mortificanti, ma di porsi l’interrogativo rispetto al limite del sistema in cui siamo immersi e di pensare a come poterlo superare. Si tratta di trovare un’altra base per rifondare l’autorità proprio per sostenere sia la necessità della crescita del bambino, che quella di aiutare la madre a compiere un’operazione che le è particolarmente penosa, ovvero quella di rinunciare al potere reale che ha sul bambino.
Oreste: una figura emblematica della sintomaticità contemporanea
La figura di Oreste descritta da Eschilo nella tragedia “Orestea” ben si presta, agli occhi dello psicoanalista francese ma anche di una meno nota analista di nome Michele Gastambide, a rappresentare l’aggressività del bambino contemporaneo privato del padre dallo strapotere del materno. Siamo, anche temporalmente, ben prima dell’Edipo di Sofocle. La faccenda è più arcaica, anche psichicamente.
Oreste si macchia di matricidio. Uccide la madre Clitennestra, colpevole dell’assassinio di Agamennone (padre di Oreste e marito di Clitennestra). Per separarsi dalla madre che “fa fuori il padre”, per sfuggire alla sua onnipotenza feroce è costretto ad ucciderla nel reale. Non ha la possibilità di appellarsi ad altro, a quel terzo che gli è stato sottratto proprio dalla stessa madre. E allora deve fare da solo, ed agire concretamente con un passaggio all’atto violento.
Nella clinica capita sempre più spesso di osservare bambini che rivolgono direttamente la loro violenza verso i genitori, genitori come abbiamo visto indifferenziati nel loro ruolo e ripiegati sul “maternage”. Gli educatori, i terapeuti e i genitori in primo luogo restano sconcertati di fronte a certe manifestazioni non arginabili, non capendo questi ultimi in alcuna maniera quale sia stato il loro contributo a dare il via alla situazione di cui si lamentano. Siamo stati così buoni, così amorevoli, ripetono.
Appare impensabile leggere il malessere del figlio come rappresaglia nei confronti dell’estromissione del principio paterno. Tuttavia è quanto di più necessario da fare. Fermarsi e riflettere quanto l’indifferenziazione dei ruoli porti al collasso del legame vitale fra maschio e femmina, fra padre e madre, fra opposti, è il primo passo per porvi dei rimedi. Bisogna capire quanto l’apparente composizione del conflitto vitale fra i sessi svuoti il legame e lo riduca ad una dinamica in cui a farne le spese è il maschile.
E, come insegnava già Jacques Lacan, se il sintomo del bambino più che rappresentare la verità del legame di coppia finisce con l’essere “prerogativa della sola soggettività della madre” anche gli analisti si trovano in difficoltà nel loro intervento, anche loro a rischio di scivolare nella stessa posizione del terzo escluso dalla simbiosi mortifera fra madre e bambino.