Competere con sé stessi o con gli altri?
L’argomento è particolarmente sentito dai più giovani, alle prese con l’ansia di trovare la propria strada e spesso in dubbio rispetto alla propria adeguatezza, ma anche da persone più in là con gli anni, ancora impelagate con fragilità rimaste irrisolte.
Competitività e disagio
Il disagio legato alla competitività in genere si esprime sintomaticamente in forme ansiose, con un particolare accento sul senso di compressione e di inibizione soggettiva (scarsa lucidità, tendenza all’errore e alla prestazione scadente). Tale auto sabotaggio si scatena e si esacerba quando entra in gioco l’esposizione diretta allo sguardo dell’altro, di cui viene avvertito il giudizio se non addirittura lo scherno.
Il problema nella stragrande maggioranza dei casi deriva da una carenza a livello narcisistico. L’Io della persona che si auto limita quando è chiamata a performare è per vari motivi troppo dipendente dallo sguardo dell’altro, ovvero dalla conferma che arriva dall’esterno.
Quando il tasso di competitività di un ambiente è elevato tipicamente si verificano cadute del genere, proprio perché le persone in tali contesti non sono inclini a elargire rinforzi positivi, a mettere a proprio agio o a esercitare una cura essendo la logica imperante quella del “mors tua vita mea”.
A prima vista chi patisce così tanto la competizione può apparire come un’innocua vittima di un sistema spietato, iper sensibile e delicata. Ma non è sempre così. Spesso la vittima in questione si comporta a parti invertite esattamente come il carnefice. Se le viene data la possibilità, si dimostra sprezzante e feroce verso il più debole, finendo per godere della caduta e dell’insuccesso altrui.
Il fragile che si diminuisce e soffre della propria misera mediocrità è dunque lo stesso che trae piacere dalla scivolata dell’altro. Le due figure della vittima e del carnefice si sovrappongono, nella misura in cui entrambe sono l’espressione di un concetto di competitività diffusissimo ma malato.
Tutte e due infatti sposano l’idea per cui per “essere” bisogna per forza che qualcuno muoia (se stessi o l’altro), non riuscendo ad elevarsi dal piano elementare della rivalità (o io o tu) a quello più evoluto della coltivazione di sé e dell’arricchimento reciproco dato dal confronto fra esseri compiutamente sviluppati.
La competizione sana
Per questo la competizione “sana” è sempre e solo quella con sé stessi, perché essa non punta a uccidere nessuno, non ha una forza negativa ma è fautrice di fatti, di crescita, di accoglienza e di eventuale superamento di limiti personali.
A ben vedere chi ha davvero un qualche talento è difficile che resti ancorato a vita alla stupidità delle dinamiche competitive di natura infantile. Ad un certo punto, tramite intuizioni personali o esperienze significative, si sveglia e acquista consapevolezza di sé, superando insicurezze e trovando piano piano la propria strada indipendentemente dalle attese dell’altro ma senza nemmeno inutili auto celebrazioni.
Di solito colui che resta perennemente agganciato al “sarei tanto bravo se solo non sentissi così tanto la competizione” è qualcuno che ha preso la cattiva abitudine di mascherare una propria inettitudine con l’immagine della vittima, anziché assumersi i propri limiti e sviluppare una visione lucida di sé stesso.
La chiave per uscire dal tunnel della sintomaticità da eccesso di competizione sta allora nel classico “conosci te stesso”, spietatamente, senza filtri protettivi.
Gli obiettivi cambiano radicalmente una volta che ci si vede, ci si accetta e ci si valorizza per ciò che si è. Il talento in un certo ambito può essere del tutto assente, oppure restare ad un livello di mediocrità che non porterà al successo senza che tale constatazione debba essere vissuta come una sentenza di morte o un annientamento personale.
L’intelligenza e la maturità di una persona la si vedono nella capacità di non perseverare là dove l’attitudine di base manca. Insistere sull’ideale condanna solo all’infelicità, all’amarezza, all’invidia, all’odio gelido verso chi è più capace e dunque ad una modalità competitiva sleale e malsana.
Al contrario competere con sé stessi è la via da seguire, non nell’accezione dell’auto fustigazione mortificante ma in quella più semplice del confronto con la realtà senza i paraocchi di ideali compensatori.
La psicoterapia in tal senso può aiutare molto, a patto che il luogo della terapia non venga visto solo come una discarica in cui svuotare le proprie pene e da cui attendere la soluzione magica alle lacune personali.
Le problematiche narcisistiche di questa natura sono le più dure a morire, proprio perché si va a lavorare su un piano dell’essere per certi versi strutturante. Non è da tutti riuscire a “reggere” all’incontro con la propria miseria, così come non tutti riescono a ridimensionare aspettative o a cambiare umilmente rotta quando i fatti restituiscono prove e riprove frustranti. I più preferiscono soffrire tutta la vita, farsi e fare del male pur di mantenere vivo il fantasma grandioso.
In alcuni c’è persino in ballo una questione di sopravvivenza: spingere verso un radicale ridimensionamento narcisistico può far affondare ancora di più nel baratro, per cui mantenere certe protesi può avere il suo senso (magari un po’ meno per chi si trova costretto a star intorno a certe personalità). Molte compensazioni di psicosi latenti si basano su fantasie e fissazioni grandiose.
Chi invece riesce a mobilitare le risorse psichiche per integrare la propria insufficienza può finalmente sperimentare una vita più positiva e appagante. Le sue energie, dirottate su ciò che lo rende felice e produttivo in concreto e non in astratto, sono finalmente libere di creare qualcosa di utile per se è per la comunità.