La verità del panico
E’ un dato di fatto ormai assodato: nella civiltà contemporanea tutte le istituzioni sono indebolite e ridimensionate nel loro potere normativo.
Nelle famiglie il prestigio e la forza orientativa dell’autorità paterna sono decaduti. Assistiamo a un progressivo sgretolamento degli ideali, a uno sfaldamento della credenza che la vita sia fondata, che abbia cioè alla fin fine un senso.
Un nichilismo dilagante da cui deriva un’irreversibile perdita di senso del valore del limite. Se la vita non ha alla sua radice alcun tipo di garanzia o finalità perché porsi dei limiti? Perché rinunciare? Perché frenare la spinta a godere qui e ora?
Questo discorso, di cui ormai è intriso l’inconscio per così dire “collettivo”, ha molteplici ricadute sull’esistenza delle persone, persino sui loro sintomi, sul modo cioè in cui esprimono la loro sofferenza psichica. Il panico sotto questo profilo appare come uno dei fenomeni più rappresentativi del sopra citato indebolimento della forza rassicurante e protettiva di un ideale normativo solido.
Il panico infatti rappresenta una condizione psichica di totale perdita di controllo, di dissoluzione, di sfaldamento, di smarrimento. Già Freud ai suoi tempi parlava dell’emergenza del panico negli eserciti in cui viene meno il capo. Privi del riferimento ad una guida stabile e riconosciuta, i soldati si disperdono, si sparpagliano come frammenti ormai del tutto inefficaci a far fronte al nemico.
Il panico da questo punto di vista interroga il lavoro di noi terapeuti in un modo particolare. Se da una parte siamo chiamati a fornire dei supporti, degli appigli, dei rimedi per tamponare la sofferenza intollerabile dei soggetti presi nella morsa ingovernabile dell’attacco, dall’altra siamo portati in maniera più sottile a cercare altre soluzioni. Il panico infatti in un certo senso indica una verità di struttura: la vita non è garantita, non è fondata da nessun padrone. A tutti può capitare di scivolare nel buco dell’insensatezza.
Si tratta allora di prendere atto dell’esistenza di un buco che attraversa tutti quanti, nessuno escluso. Farci i conti, guardare in faccia la ferita che attraversa la nostra sostanza vivente, il nostro statuto di fondo leso. Ma non per ripiegarci in una sterile autocommiserazione. Per poter farne qualcosa, per trasformare la vertigine dell’assenza di garanzia in una chance di vita, possibile anche se al fondo appoggia su un terreno friabile. Questo vuol dire accettare il limite, l’impotenza, la fragilità. E scegliere di vivere con ciò che si ha e si è, pur nella loro imperfezione e precarietà. Senza scivolare nel rimpianto di un padre padrone che impone e dice cosa fare, o all’estremo opposto nella dissipazione di un vivere capriccioso e senza progettualità.