Delusione amorosa: è possibile soffrire senza perdersi?
L’interruzione dell’essere amati o il tramonto definitivo dell’aspettativa di venire ricambiati ci gettano nello sconforto più totale, facendoci sperimentare un senso di nullità esistenziale. Senza il riconoscimento dell’Altro, senza il sì alla nostra vita da parte dell'amato, siamo privati di quel senso di autorizzazione a esistere che solo l’amore può dare a un essere umano.
Ma perché qualcuno, dopo un periodo di intensa sofferenza, si risolleva mentre qualcun altro invece scivola lentamente in un tunnel depressivo fatto di autosvalutazione e perdita del sentimento della vita? In una parola, perché c’è chi riesce a reagire e a voltare pagina e chi magari passa al contrario anni e anni guardandosi indietro, colpevolizzandosi, in una sorta di congelamento al tempo della perdita?
Le ragioni variano sempre da persona a persona, tuttavia, ascoltando le storie di chi cade nel baratro della depressione e della chiusura affettiva, ritroviamo invariabilmente una costante. Una perdita scarsamente elaborata ha contrassegnato la prima parte della sua vita.
Quando parliamo di una separazione non pienamente elaborata è come se ci riferissimo a un pasto non ben digerito, che lascia la sensazione di peso sullo stomaco, di qualcosa che non è andato giù, non è stato totalmente assorbito. Di solito questo scacco avviene quando mancano “le parole per dirlo”, ovvero quando la perdita viene subita senza che sia possibile parlarne con qualcuno. Parlare ha infatti la funzione di attribuire un senso all’accaduto, soprattutto durante l’età delicata dell’infanzia e dell’adolescenza, in cui ancora non si possiedono tutti gli strumenti per padroneggiare, riconoscere e dunque dare un nome a quanto ci succede.
La perdita a cui facciamo riferimento concerne non solo l’allontanamento fisico di una persona importante dal punto di vista affettivo.Si può trattare anche di una radicale delusione, della scoperta cioè di un volto nuovo e sconcertante di chi credevamo di conoscere bene. In ogni caso viene interrotta bruscamente la continuità nella percezione di un determinato rapporto, qualcosa viene sottratto. E il suo venir meno impoverisce il nostro io. Un dubbio si insinua rispetto al crederci amabili, degni cioè della presenza dell’Altro. Se se ne va, ci volta le spalle, forse infondo ce lo meritiamo?
Generalmente queste prime esperienze traumatiche, la cui intensità risulta molto variabile a seconda della storia individuale, lasciano nell’inconscio degli strascichi, dei residui. Magari ci riprendiamo benissimo, trovando dei meccanismi compensatori efficacissimi per restaurare un’immagine positiva di noi stessi. Questi però possono crollare, sciogliersi come neve al sole se ci ricapita di innamorarci, di aprirci e poi di incontrare nuovamente il rifiuto e la delusione.
Amare infatti comporta esporci all’Altro. Quando amiamo davvero siamo nudi, senza difese di fronte all’amato. E’ strutturalmente così: gli consegnamo le chiavi della nostra felicità. Se non le accetta, se ce le ridà indietro, ecco nulla più appare ricco di valore, nemmeno noi stessi.
Se però possiamo avvalerci di una solida fiducia in noi stessi, se le ferite del passato sono state adeguatamente elaborate e siamo scesi a patti con la vulnerabilità di fondo che accomuna tutti quanti, allora dopo un po’ diventa possibile tornare a vivere, a investire nuove energie nel mondo.
Se così non è occorre fermarsi, prendere del tempo per capire a cosa abbiamo voltato le spalle in passato, cosa non abbiamo potuto o saputo vedere. Bisogna compiere questo sforzo, a volte dolorosissimo, di rilettura della nostra storia, per sfuggire al rischio, sempre insidioso, di un ripiegamento mortale, di una stasi senza fiducia in una pienezza che verrà.