Ricominciare grazie ad un'analisi
Partiamo da quest'ultima questione: parlare a qualcuno che sa ascoltare. L'accento non è volutamente messo sul terapeuta ma sul soggetto stesso. Una terapia funziona solo se è chi parla che lavora, che fa lo sforzo di analizzarsi e di capirsi. Aspettarsi che sia l'altro a mettere in atto delle tecniche per guarirci dal nostro disagio è semplicemente sterile e fallimentare, nella misura in cui quando stiamo male siamo a livello inconscio profondamente implicati nel mantenere e perpetuare lo stato in cui ci troviamo. La ricerca delle cause e dei perché sta quindi dal lato di chi domanda, mentre dall'altra parte c'è qualcuno che tramite il suo ascolto e la sua mirata interpretazione permette a sua volta di ascoltarsi davvero, di vedere dentro a punti ciechi, di prendere la parola appena pronunciata per qualcosa che ha un peso, un valore, una verità. Solo così parlare acquista un valore trasformativo, incide, buca, non cade nel vuoto come semplice parola vuota o come inutile lamento.
Ora le parole dette in analisi sono sempre connesse ad una definizione di sè basata su quella formulata da un Altro, l'Altro primordiale, un genitore, la famiglia, il contesto d'origine. Si tratta di identificazioni alienanti, che via via nel corso del lavoro emergono, appaiono in piena luce e si disfano. Sciogliendosi liberano dalla loro presa, con un effetto di separazione che restituisce margine di manovra, capacità espressiva, slancio desiderante. In virtù di questo processo si può ricominciare a vivere. Di fatto si tratta di una nuova nascita, che può avvenire a qualsiasi età ed indipendentemente dagli accadimenti esterni, proprio perché in gioco c'è il recupero della parte più autentica e insieme più sconosciuta di se stessi.
Ma il lavoro non finisce qui. Se da una parte molte errate definizioni di sè possono essere evocate, attraversate ed infine superate, dall'altra qualcosa resiste, non si fa piegare, incidere. Il discorso inciampa ripetutamente su un nucleo di fondo che appare imperturbabile alla parola e pertanto inscalfibile. Le parole e le formulazioni per dirlo variano, ma lui resta sempre lì, con il suo potere di determinazione sul proprio destino. Si tratta di quella che in psicoanalisi chiamiamo "identificazione costituente", costituente perché racchiude una definizione di sè che inconsciamente condiziona tutto il modo di vivere e di vedere la realtà di una persona. "Essere una merda", " essere il migliore", "essere l'esclusa" sono solo alcuni esempi di tale nucleo resistente al lavoro analitico e alla base di tutta la logica di una vita.
Se l'analisi non lo può disfare, sciogliere, neutralizzare, eliminare può però produrre degli effetti potentissimi nella direzione di un suo oltrepassamento. Si tratta di una trasformazione di questa ripetizione cattiva in una chance, in una possibilità inedita, in qualcosa di creativo. "Essere una merda" può così dare linfa ad un'attività, un progetto, una vocazione che non potrebbero sostenersi su un fantasma di onnipotenza. Una fragilità può cioè convertirsi in forza creativa, aver sofferto diventare in questo modo un motore anziché solo un buco in cui cadere ogni volta.