La professione della psicoanalisi è pericolosa
Wilfred Bion, nei suoi “Seminari italiani” dedica pagine di abbagliante chiarezza alle difficoltà insite nel lavoro psicoanalitico, privilegiando quelle (apparentemente invisibili ) con cui è alle prese il terapeuta.
Ogni analista, benché possa poggiare su un solido corpus teorico e su una consolidata esperienza, è alle prese con due grandi problemi, l’uno connesso all’altro.
Problemi e difese degli analisti
Vediamo la prima questione, ovvero la solitudine radicale. Nella stanza d’analisi l’analista é completamente solo, il che lo porta nella sua attività a dipendere unicamente dalle sue capacità di osservazione e dal paziente. Nel vivo del lavoro, ma anche in una riflessione a posteriori, nessuno può vedere per lui cose che sono accessibili solo alla sua personale osservazione. Il suo più grande collaboratore è allora il paziente stesso. Più lo sguardo del terapeuta riesce a mantenersi aperto, scevro da idee preconcette, più lo scrigno del paziente diventa accessibile, aprendo la via all’emergere di qualche cosa di nuovo.
Il secondo nodo problematico concerne la totale insufficienza degli strumenti già dati in possesso all’analista per compiere la sua missione, ossia quella di “vedere l’invisibile” e di esprimere ciò che viene visto in modo tale che anche il paziente possa accedervi (l’interpretazione). Il difficile compito a cui chi sceglie la professione si vota è quello di prendersi delle responsabilità enormi senza avere delle linee guida da poter seguire scrupolosamente e che garantiscano l’efficacia e il successo della sua prassi. Per quanto un analista possa aver studiato e praticato, per quanto si aggiorni e dedichi il suo tempo alla riflessione, per quanto sappia tutto del suo paziente, con ognuno, addirittura ad ogni incontro, si tratta sempre di un incontro al buio.
La verità scabrosa (che molti analisti ma anche gli stessi pazienti vorrebbero evitare) e che Bion denuncia è la limitatezza della conoscenza “scientifica” nel campo della natura umana. Uno Shakespeare ne sapeva molto di più in materia dello stesso Freud in persona, non a caso la lettura delle sue opere risulta più avvincente di quella di qualsiasi manuale di psicoanalisi. Questo perché l’artista procede grazie all’intuizione, perché è privo di sovrastrutture, se non si limita a descrivere il reale ma è in grado di afferrarne dei brandelli.
Da questi problemi ne deriva allora un terzo, ovvero il “rumore” di fondo che sovrasta l’analista durante la sua pratica. È un rumore che viene dall’interno, ipotesi sulle malattie mentali, ipotesi sulle teorie psicoanalitiche, masse di ipotesi all’infinito. Tutto questo provoca nella mente del terapeuta un chiasso tale da impedirgli di udire ciò che sta dicendo realmente il corpo o la testa del paziente. Aggrapparsi al sapere per difendersi dall’invisibile, dalla contingenza, dalla pressione della domanda dell’altro si configura come una delle più diffuse difese involontarie da parte degli analisti, che finiscono però per accecarlo e stordirlo del tutto.
Che fare?
Bion suggerisce, per eliminare o quanto meno per contenere tale difesa, di compiere lo sforzo costante di “denudare la mente di memoria e desiderio” in modo da ridurre al minimo il rumore fatto dall’apprendimento e dall’esperienza passata.
L’obiettivo è quello di ottenere la massima apertura nella visione, per poter cominciare ad udire o a “sentire” qualcosa di autentico, fosse anche solo l’incandescenza reale del dolore di chi si ha di fronte. La sensibilità verso la sofferenza deve essere massima, va portata al suo limite estremo per poter cavare anche solo un piccolo frammento di verità, eppure essa non può portare ad interferire nella capacità di pensare lucidamente. In quanto persona responsabile un terapeuta deve saper pensare chiaramente pur nel tumulto delle emozioni, al pari di un ufficiale in guerra le cui truppe sono terrorizzate e vogliono scappare.. A lui, che è in posizione di autorità, non è concesso di abbandonare il campo. Pur essendo e rimanendo un uomo, pur provando le emozioni dei soldati semplici, il suo compito è alto, non ammette fughe. Deve restare dove si trova, anche a costo della vita.
Per questo ribadisce nettamente Bion, la professione della psicoanalisi è pericolosa. Nessuno dovrebbe mettersi a fare lo psicoanalista o il medico se non è pronto a pagarne il prezzo. “ Se non riesci a sopportare il calore, sta’ fuori dalla cucina” ammonisce. “Una volta che tu abbia deciso di aiutare i tuoi simili e le tue simili sei nei guai. Non importa quanto sei ammalato, stanco, debilitato fisicamente o mentalmente, devi mantenere la disciplina”.
Un analista è sempre sotto il fuoco dello sguardo del paziente, sensibilissimo a coglierne nel viso o nel tono i segni di stanchezza o di disattenzione. Che lo voglia o meno, che utilizzi escamotage più o meno sofisticati è continuamente sotto osservazione. “Se non ne siamo consapevoli non sappiamo perché ci stanchiamo tanto. Non potete lavorare per ventiquattr’ore al giorno; solo voi potete dire quante ore potete lavorare; soltanto voi potete organizzarvi in modo che in quelle ore ci siano le condizioni che vi permettano di lavorare perché la vostra attenzione non sia distratta”.
Perché essere consapevoli
La consapevolezza di tutti questi problemi è dunque importantissima per chi pratica la professione, non come scusa o auto giustificazione rispetto agli errori o alle impasse a cui inevitabilmente va incontro nel corso delle sedute.
Essa serve da monito e da costante stimolo di riflessione sul proprio operato. Per individuare in maniera lucida e spietata i propri errori, i cedimenti, gli accecamenti, le debolezze. Cosa che nessuna supervisione può indicarci, se non siamo noi in prima persona disposti a metterci radicalmente in discussione.
Da un lato la finalità è quella di evolvere, di continuare ad imparare e di tenere vivo il senso di ciò che si sta facendo. Il vero fine di un clinico è la cura, la pratica, non la speculazione teorica, i sofismi, i trastulli mentali.
Dall’altro le parole crude ma dense di verità di Bion ci inchiodano pure alla necessità di considerare i nostri limiti anche nello stabilire quante ore possiamo sopportare per lavorare bene, per non cedere alla tentazione di abbandonare i nostri soldati al loro destino. È un richiamo all’etica, quanto mai fondamentale in questi tempi.