Barriere autistiche nei pazienti nevrotici
L’autismo, secondo la lettura che ci propone la psicoanalista Frances Tustin, lo dobbiamo immaginare così, una sorta di “robotizzazione” dell’essere, di “congelamento vitale” conseguente ad un terrore percepito come soverchiante ed eccedente qualsiasi possibilità di elaborazione.
La barriera autistica viene innalzata in età infantile per proteggere da una caduta immaginaria, legata alla sensazione di una precoce e traumatica separazione dalla madre. Qualcosa irrompe nella coppia madre bambino e divide anzitempo, consegnando ad un terrore senza nome il bambino non attrezzato a fronteggiare il distacco e ancora bisognoso di fusionalità.
La sensazione così la fa da padrone, inghiottendo tutta la vita psichica, che finisce per venir dominata da un’iper sensibilità il cui unico argine sembra profilarsi proprio nelle difese autistiche, nella immobilizzazione, nella pietrificazione senza parole. Gli oggetti e le forme autistiche, le stereotipie e le bizzarrie comportamentali diventano in questo scenario gli unici appigli possibili, delle forme di auto consolazione solitaria e sfuggente alla comunicazione.
Capsule autistiche
Secondo Tustin possiamo entrare in empatia con il vissuto autistico nella misura in cui tutti noi possiamo provare dei terrori elementari molto simili, a cui seguono reazioni difensive per certi versi analoghe a quelle così dette patologiche.
Non solo, in molti soggetti nevrotici adulti può persistere un nucleo autistico circoscritto che, benché lontano da inghiottire tutta la vita psichica, si traduce in una strisciante, sottile sensazione di irrealtà, come se la vita fosse un sogno, un susseguirsi di eventi di cui si è spettatori più che protagonisti.
In questi casi la maturazione cognitiva ed emozionale ha luogo, tuttavia aggirando una “zona oscura” di mancato sviluppo, una capsula di autismo nascosta nel fondo della personalità. Ed essa spesso si rivela la responsabile delle ben note difficoltà a svolgere un lavoro psicoanalitico tipiche di questi soggetti.
Modificazione delle difese autistiche
Quando i pazienti nevrotici sono nella morsa della loro capsula nascosta di autismo sembrano duri ed impenetrabili, credono di sapere tutto, fanno i “sapientoni” e mostrano uno scarso rispetto nei confronti dell’esperienza dell’analista e delle sue interpretazioni. In questo stato sono soliti approfittare delle debolezze e dei difetti umani del loro analista, che spesso si accorge della situazione troppo tardi, solo quando la sua autorità è stata infranta.
I pazienti con queste caratteristiche si sono ingannati da soli e il terapeuta, se non fa attenzione, rischia di venire a sua volta anestetizzato e ingannato. Un’analisi condotta su queste basi può durare in eterno senza che nulla cambi, diventando un dialogo sterile, puramente intellettuale, interminabile e privo di significato.
Il tabù della fragilità, l’aver dovuto “stingere i denti” fin dall’infanzia per fronteggiare strappi e lacerazioni hanno finito per intrappolare in una corazza molto simile alla conchiglia autistica vera e propria.
Tuttavia, quando avviene il contatto con questa parte nascosta, quando il guscio comincia a rompersi, la ferita psichica non sanata si rivela in tutta la sua potenza dolente. Vediamo allora riemergere quella ipersensibilità contro la quale era stata costruita la protezione. Una grande ondata di disperazione può dunque travolgere il soggetto riparato dietro le sue mistificazioni
Si tratta di un primo passo fondamentale nella direzione della modificazione delle difese autistiche, un lavoro che richiede da parte del terapeuta fermezza e delicatezza insieme. È il rivolgersi alla parte sana del paziente a rendere superflue nel tempo le sue rigidità autistiche e a permettergli di resuscitare psichicamente.
Cercare e infine trovare dei punti di contatto “con una persona sana dalla quale aspettarsi risposte sane” pur offrendo una rispettosa e amichevole comprensione delle sue difficoltà, è la chiave di ogni approccio autenticamente terapeutico.
Empatizzare con il vissuto autistico: il terrore dello scalatore
Tustin in un testo intitolato “Cadere”, cerca di avvicinare il lettore alla comprensione del vissuto autistico ricorrendo alla testimonianza scritta di un amico scalatore, non autistico, alle prese con il pericolo reale della caduta nel vuoto.
L’obiettivo è quello di mostrare le affinità tra non autistici e autistici, per poter stabilire con questi ultimi un contatto più profondo. Le reazioni degli autistici per Tustin sono infatti frutto di predisposizioni innate presenti in tutte le attività umane, reazioni automatiche connesse alla paura di cadere o di essere abbandonati.
Nel resoconto dell’amico scalatore si descrivono le sensazioni da lui provate durante la sua prima esperienza di scalata: solitudine, terrore di cadere, perdita della parola, congelamento emotivo ed infine ritorno graduale della fiducia in sè e del coraggio unitamente alla percezione quasi dolorosa della bellezza circostante.
Molte sono le analogie riscontrate dalla Tustin fra l’esperienza dell’amico e quella dei bambini autistici o dei pazienti nevrotici con capsule autistiche (benché le differenze siano evidenti, nel primo caso l’evento che scatena tutto è un pericolo circoscritto e concreto e la reazione è solo temporanea).
Le parole “Sentivo solo lo spazio, l’isolamento ed una vaga sensazione, forse paura ma non saprei dire” potrebbero essere quelle di qualcuno che a posteriori racconta l’innominabile della sua esperienza, non condivisibile nè percepibile dall’esterno.
Così come quelle “C’era un altro al mio posto ed io, dal di fuori, osservavo il mio stesso corpo...mi vidi partire per la scalata con sicurezza ed indifferenza, ero un automa” testimoniano una condizione di congelamento emotivo particolare.
Siamo al secondo giorno di scalata e, alla paura che era piombata inaspettatamente sullo scalatore il giorno prima, subentra una reazione difensiva di depersonalizzazione. La ripresa della salita lo vede ridotto ad un automa che compie gesti automatici, cosa che ricorda molto i movimenti di robot o di zombie caratteristici di molti autistici o le esperienze nevrotiche di desertificazione del corpo ben incarnate dall’Uomo di latta nel Mago di Oz o dagli Uomini vuoti di T.S. Eliot.
Ed infine le descrizioni del ritorno in se stessi “ci fu in effetti un ritorno alla coscienza che si manifestò nella consapevolezza di essere una persona intera, corpo e mente...ogni volta che ci fermavamo le montagne e il cielo apparivano sempre più nitidi e vicini, la loro bellezza era quasi dolorosa” evocano le percezioni molto intense tipiche di chi, liberatosi con coraggio e fatica della propria capsula autistica, prova sensazioni intensissime, come dopo una lunga convalescenza o un lungo inverno.
Il ritorno della sensibilità comporta dunque un piacere tormentato, un’estasi straziante... Ma che significa Vita.