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Due livelli di consapevolezza

 Chi pratica la psicoanalisi conosce bene la differenza fra un lavoro mentale al fondo abbastanza fine a stesso, che ricostruisce su un piano meramente razionale i perché e le dinamiche sottese a certi comportamenti ripetitivi, e un atteggiamento psichico diverso, più evoluto, non strettamente mentale ma potremmo dire etico.

Produrre l’etica?

Si può insegnare l’etica? Si può produrre un atteggiamento etico in chi non ce l’ha? Grande problema per gli psicoanalisti. Etica e non morale, riconducibile questa seconda a prescrizioni vuote, a cui basta attenersi per sentirsi al sicuro.

Per etica non dobbiamo pensare solo alla famosa “implicazione soggettiva” di cui ci parlava già Freud nell’analisi delle isteriche e che Lacan ha avuto il merito di formalizzare e di farne un punto cruciale di svolta preliminare a qualsiasi vero cambiamento di posizione.

Certo, tale implicazione soggettiva ha a che vedere con il piano etico nella misura in cui mette di fronte il soggetto a qualcosa che non ha semplicemente a che vedere con i suoi istinti, le sue voglie, i suoi capricci o le sue elucubrazioni mentali. Essa confronta con il piano più elevato della responsabilità, che a ben vedere è quello che ci rende umani, dotati di autocoscienza, della capacità di osservarci dall’esterno, di dirci “io ho fatto questo” e di chiederci il perché.

Ma reperirsi responsabili dei propri atti non basta per rompere un certo tipo di ripetizione distruttiva negli atteggiamenti e nelle condotte verso se stessi e verso l’altro. È un passo indispensabile, ma in sè insufficiente, in quanto può esitare cinicamente del dirsi “dunque sono io l’artefice dei miei guai, sì, ma agire così mi piace troppo, non voglio staccarmene”.

La roccia del godimento

È dunque tale “godimento” a costituire la roccia dura contro cui si infrange persino un atteggiamento evoluto come il riuscire a vedere la propria parte nei malesseri di cui ci si lamenta. 

E come può un’analisi, con i suoi mezzi limitati, scalfire un gigante simile? Come può incidervi quando un soggetto non è disposto a cedere per nessuna ragione nonostante abbia compreso bene tutti i “perché” all’origine delle sue nevrosi?

L’atteggiamento responsabile, che sicuramente segna una differenza rispetto a chi è immerso ciecamente nei propri meccanismi, non è davvero tale se lascia spazio alla resa a continuare a rigirarsi nel fango. Godere nel colpire l’altro, nel renderlo schiavo, nell’umiliarlo, nel controllarlo, nel “fargliela pagare”, oppure godere al rovescio masochisticamente nei modi più svariati sono tutti scacchi all’umano nella sua accezione più piena. Anche se al fondo la mira è sempre essere amati, tali modalità restano di natura malata.

 Solo una postura etica che va oltre la banale  “rettifica soggettiva” permette di guardare le proprie miserie dall’esterno e poi di fermarsi sul serio, di sentire davvero il sapore cattivo del veleno, di chiedersi profondamente che senso abbia tutto ciò nell’economia di una vita in cui si è tutti fragili ed esposti alla caduta.

È scegliere il bene? È optare per la luce, per la bellezza? È la pulsione di vita che trionfa su quella di morte? È l’assunzione piena della “castrazione”, è il proprio ridimensionamento narcisistico che fa fare questo salto verso la sublimazione?

Le trappole narcisistiche

Allora come analisti siamo chiamati a vedere nel narcisismo il vero nemico da combattere, il vero ostacolo alla resa al godimento cattivo che rende certi sintomi inerziali.

Ma come fare? Jacques Lacan proponeva le sedute corte, i tagli del discorso, i silenzi ostinati dell’analista, certi atti, tutte manovre finalizzate a lasciar solo il soggetto con se stesso, a costringerlo ad ascoltarsi, a vedersi da fuori e in ultima analisi a far vacillare la potenza del suo Io e la credenza nei suoi prestigi.

Manovre efficacissime nei casi di analizzanti evoluti, nevrosi pure, studiosi, filosofi, analisti in formazione. Tutte persone in ogni caso dotate di un Io ben strutturato. Ma l’uomo comune, l’uomo della strada può tollerare un approccio così forte?

Sappiamo come dietro al narcisismo si celi spessissimo proprio una fragilità narcisistica, oggi dilagante, trattata attraverso un rigonfiamento dell’Io. Quindi entrare a gamba tesa troppo presto, cercare di smantellare da subito l’impalcatura soggettiva può avere effetti disastrosi con soggetti fragili come quelli contemporanei.

È come se oggi in un certo senso fossimo prima chiamati a costruire un soggetto, a farlo venir fuori, per poi poterlo aiutare a liberarsi dalla zavorra narcisistica che utilizzava per tenersi insieme.

Lavoro creativo, difficile, che alterna sapientemente presenza ed assenza, sempre sul punto di interrompersi a metà. E che forse, non tutti possono affrontare, almeno in certi momenti della vita.

I più preferiscono un “maquillage” ben fatto per tirare avanti. Ma per guarire davvero un altro passo si impone, quello di trovare in sè la disponibilità per accedere alla forza e alla bellezza non contro ma a partire dalla fragilità della condizione umana.

Disagio contemporaneo